Per anni il settore della moda è stato definito come uno dei più inquinanti al mondo, con un impatto ambientale paragonato addirittura a quello dell’industria del petrolio. La crisi che ha colpito il comparto non riguarda soltanto il calo delle vendite di abiti e accessori, ma anche una trasformazione culturale profonda; i consumatori chiedono trasparenza, etica e un modello di moda circolare che riduca sprechi e costi sociali.
La crisi della moda non è più spiegabile soltanto con un crescente divario tra disponibilità economiche dei consumatori e stipendi che crescono al ritmo dell’inflazione, o agli aumenti dei prezzi decisi da alcuni marchi, a loro volta alle prese con rincari di materie prime, logistica e affitti dei negozi.
Dietro la frenata dei consumi ci sono nuove priorità. Per le generazioni più giovani, vestirsi resta un piacere e un modo di esprimere sé stessi, ma non può più prescindere dal rispetto per l’ambiente. L’esplosione del fast fashion, con il suo ciclo produttivo frenetico e altamente inquinante, ha generato un boomerang: da simbolo di accessibilità e velocità, è diventato sinonimo di eccesso e insostenibilità.
Allo stesso tempo, anche il lusso è messo sotto pressione. Le recenti indagini sulle filiere produttive, che hanno coinvolto marchi molto noti, hanno fatto emergere il rischio reputazionale: senza fiducia dei consumatori, anche i brand più iconici rischiano di perdere credibilità.
Una moda percepita come sinonimo di profitti eccessivi o pratiche scorrette non ha futuro.
Eppure, la moda, proprio perché ha saputo interpretare i tempi e reinventarsi nei secoli, può trasformarsi oggi in un motore di crescita sostenibile. Le basi per un radicale cambiamento sono già ben visibili: dai progetti di economia circolare che puntano a prolungare il ciclo di vita dei capi e dei materiali, alla riscoperta di fibre naturali come il lino europeo, fino alle nuove tecnologie per la tracciabilità (blockchain, digital product passport) e alle normative europee contro l’ultra fast fashion.
Il settore deve però compiere un salto culturale: da industria ad alto impatto ambientale a simbolo di innovazione responsabile, capace di coniugare bellezza, design e sostenibilità. Non si tratta soltanto di seguire le tendenze del mercato, ma di ridare alla moda il ruolo di raccontare la società, interpretare il tempo presente e guidare le scelte future, con uno sguardo rivolto al benessere delle persone e delle prossime generazioni.
Se la sostenibilità rappresenta la grande sfida del futuro, il presente della moda è segnato da una questione altrettanto importante: la fiducia dei consumatori.
Negli ultimi anni, diverse inchieste hanno messo sotto i riflettori le pratiche scorrette all’interno delle filiere produttive, sollevando dubbi sulla reale trasparenza anche di marchi storici e di lusso. La Procura di Milano, con le indagini che hanno coinvolto aziende come Armani, Dior e Loro Piana, ha dimostrato che la reputazione del settore moda è fragile e che basta poco per incrinare la percezione di un’intera industria.
L’altro grande rischio l’ha ribadito Claudio Marenzi – già presidente di Sistema Moda Italia, Confindustria Moda e Pitti Immagine – in un’intervista a Maria Silvia Sacchi sul suo sito The Platform: le pratiche scorrette della filiera che hanno portato la Procura di Milano ad aprire indagini su diverse aziende, da Armani a Dior e Loro Piana (fonte: Il Sole 24 Ore del 29 luglio), minano il rapporto di fiducia con i consumatori. Da una parte si rafforza l’opinione di chi già era convinto che, nella moda e nel lusso, i ricarichi fossero esagerati; dall’altra si penalizza il lavoro onesto della gran parte delle aziende della filiera italiana e si mette in discussione il ruolo stesso della moda, che invece può essere una parte importante delle nostre vite, perché ci permette di raccontare qualcosa di noi.
La moda non è solo business, ma è anche cultura, creatività, espressione sociale. Se viene percepita come mero strumento di profitto a spese dell’ambiente e dei lavoratori, rischia di perdere il suo ruolo simbolico e identitario.
Per i consumatori, soprattutto i più giovani e sensibili ai temi della moda etica e sostenibile, la fiducia non è più scontata. Vogliono sapere da dove proviene un capo, chi lo ha realizzato, con quali materiali e con quale impatto. Le indagini giudiziarie hanno reso evidente che non basta parlare di sostenibilità nelle campagne di marketing, ma occorrono azioni concrete, tracciabili e verificabili.
La reputazione del settore moda diventa così un asset strategico, forse persino più importante del design e dello stile. Per questo motivo, il futuro delle aziende passa inevitabilmente da un riequilibrio tra profitto e responsabilità, tra performance economiche e rispetto dei valori sociali e ambientali.
La moda che saprà ricostruire un rapporto autentico di fiducia con i consumatori sarà quella che guiderà la transizione verso un modello di crescita sostenibile.
La crisi che ha investito il settore della moda non riguarda solo le vendite, ma anche un modello di sviluppo ormai superato. Per decenni la moda ha puntato su un’accelerazione continua dell’offerta, rincorrendo il fast fashion con collezioni quasi settimanali, in una spirale di eccesso che oggi mostra tutti i suoi limiti.
Il mercato chiede una correzione di rotta: meno quantità, più qualità e, soprattutto, un nuovo equilibrio tra crescita e responsabilità.
Un esempio emblematico arriva da Brunello Cucinelli, che da anni parla di “crescita garbata” e di “giusto profitto”. Il successo del suo brand, quotato in Borsa e tra i pochi a registrare risultati positivi anche nel 2025, dimostra che è possibile coniugare redditività e rispetto dei valori sociali. Non si tratta solo di un approccio etico, ma di una strategia concreta che rafforza la reputazione e la fedeltà dei clienti.
Accanto alla ricerca del “giusto profitto”, i grandi marchi stanno puntando sulla diversificazione delle fonti di ricavo.
Giorgio Armani, pioniere in questo senso, ha affiancato alla moda investimenti in hotellerie, ristorazione, design e progetti immobiliari di lusso. Dolce & Gabbana ha “vestito” beach club e hotel di alta gamma, mentre Louis Vuitton ha trasformato la sua storica boutique di via Monte Napoleone a Milano in uno spazio che unisce shopping e ristorazione stellata. Fendi, già attiva nell’arredo casa, si prepara a lanciare un progetto simile in uno spazio di grandi dimensioni sempre nella capitale della moda italiana.
Un altro settore strategico è quello della cosmetica di lusso, in continua espansione. Le linee beauty stanno diventando vere e proprie “cassette di sicurezza” per i brand: profumi, make-up e skincare generano margini elevati e un accesso più democratico al marchio. Dolce & Gabbana, ad esempio, ha compensato il calo delle vendite nella moda con la crescita delle divisioni casa e beauty; Vuitton ha debuttato nel make-up, mentre Prada e Gucci hanno rafforzato l’offerta con nuove fragranze e collezioni cosmetiche.
La strategia di diversificazione non è solo una risposta tattica alla crisi, ma rappresenta una visione di lungo periodo.
La moda del futuro non potrà basarsi soltanto sul ciclo tradizionale abbigliamento-accessori, ma dovrà diventare un ecosistema di esperienze e prodotti, capace di intercettare nuove esigenze dei consumatori e di ridurre la dipendenza da un singolo mercato.
La parola chiave per il futuro del settore è circolarità. Non basta più produrre collezioni ecologiche o comunicare iniziative green: i consumatori e le istituzioni chiedono un cambiamento strutturale. Ma cosa significa, concretamente, “moda circolare”? Volendo essere chiari, possiamo dire che vuol dire progettare e realizzare capi capaci di durare nel tempo, riutilizzabili, riparabili e riciclabili, riducendo così l’impatto ambientale lungo tutto il ciclo di vita del prodotto.
A misurare gli sforzi dei brand in questo campo è lo studio Kearney, società di consulenza che nel 2020 ha lanciato il Circular Fashion Index (CFx), oggi punto di riferimento internazionale per valutare quanto i marchi stiano davvero integrando la sostenibilità nei propri processi.
L’edizione 2025 del CFx ha analizzato 246 brand di 18 Paesi, suddivisi in cinque categorie (moda, intimo, sportswear, calzature e outdoor) e quattro segmenti di mercato (luxury, affordable luxury, mass market e fast fashion).
I risultati evidenziano un quadro complesso. Se da un lato gli sforzi proseguono, dall’altro il ritmo del cambiamento è troppo lento per incidere realmente sullo scenario globale. Molti marchi hanno implementato iniziative di circolarità di base, come capsule collection con materiali riciclati, programmi di ritiro dei capi usati o campagne di sensibilizzazione. Tuttavia, queste pratiche restano spesso confinate ai dipartimenti di sostenibilità, senza un’integrazione reale nella supply chain, nello sviluppo prodotto o nelle strategie commerciali.
La buona notizia è che l’Europa risulta più virtuosa rispetto a Stati Uniti e Asia, anche grazie alle normative introdotte da Bruxelles. Nella Top Ten del CFx 2025 compaiono marchi come Gucci e OVS, insieme a Patagonia, Levi’s, The North Face, Lululemon, Coach, Gant e i nuovi ingressi Arc’teryx e Decathlon. È un segnale positivo, che mostra come anche in Italia la moda sostenibile stia facendo passi importanti.
Resta però un divario significativo tra ambizione e implementazione. I progressi in aree come il design circolare, il riutilizzo delle materie prime e la tracciabilità sono passati solo da una “maturità limitata” a una “maturità moderata”.
Il settore continua a muoversi, ma non abbastanza velocemente per rispondere alle urgenze ambientali e alle nuove aspettative dei consumatori.
La moda circolare deve diventare la colonna portante del business. Solo così il settore potrà scrollarsi di dosso l’etichetta di industria altamente inquinante e affermarsi come modello di crescita sostenibile e responsabile.
La transizione verso una moda sostenibile non può dipendere solo dalla buona volontà dei brand. Servono regole chiare e strumenti innovativi che obblighino l’intero comparto a cambiare passo. Negli ultimi anni, infatti, l’Europa e altre aree del mondo hanno introdotto normative pensate per ridurre l’impatto ambientale e promuovere la circolarità.
In Francia è stata approvata una legge che limita l’ultra fast fashion, mentre in California si discute il Responsible Textile Recovery Act, che imporrebbe ai marchi l’obbligo di ritirare e riciclare i capi usati. Si tratta di segnali forti, poiché non è più accettabile produrre e vendere senza preoccuparsi del destino dei prodotti una volta usciti dal negozio.
L’Unione Europea ha fatto un passo avanti ancora più deciso con due strumenti destinati a rivoluzionare il settore:
Accanto alle normative, anche la tecnologia blockchain sta guadagnando terreno come strumento di tracciabilità. Grazie alla registrazione sicura e immutabile dei dati, sarà possibile certificare ogni fase del ciclo produttivo, dalla coltivazione delle fibre fino al capo finito. Un sistema che non solo aumenta la fiducia dei consumatori, ma riduce il rischio di pratiche scorrette nella filiera.
Le innovazioni, normative e tecnologiche, rappresentano una spinta decisiva verso un cambio di paradigma. Non si tratta più di iniziative volontarie, ma di obblighi concreti e strumenti operativi che renderanno la moda responsabile una condizione imprescindibile per competere sul mercato globale.
Tra le molte strade che la moda sta valutando e analizzando per ridurre l’impatto ambientale, una delle più promettenti arriva da una fibra antichissima: il lino europeo.
Coltivato da millenni e oggi rivalutato come simbolo di sostenibilità, il lino sta vivendo una vera rinascita grazie alla sua impronta ecologica minima e alle sue caratteristiche di qualità.
Secondo i dati di Textile Exchange, il lino rappresenta ancora solo lo 0,5% delle fibre utilizzate dall’industria tessile, contro il 57% dominato dal poliestere. Eppure, tra il 2014 e il 2024, i terreni coltivati a lino in Europa sono aumentati del 128% e la produzione è raddoppiata, raggiungendo le 200mila tonnellate. Una crescita che testimonia il nuovo interesse del settore per una fibra naturale, resistente e facilmente tracciabile.
Il lino ha numerosi vantaggi ambientali: non necessita di irrigazione né di pesticidi, non richiede processi chimici di sintesi e ogni scarto della lavorazione trova un impiego, dall’edilizia alla zootecnia. Persino la banconota da un dollaro contiene il 25% di fibre di lino. Questo lo rende un materiale perfettamente allineato con i principi della economia circolare nella moda.
In prima linea nella rinascita della filiera c’è la cooperativa francese Terre de Lin, la più grande produttrice europea, nata nel 1940 e oggi composta da 780 aziende agricole. La cooperativa non solo coltiva il lino con metodi sostenibili, ma ha avviato progetti per riportare in Europa una parte della lavorazione, oggi in gran parte delocalizzata in Cina e India. Una scelta strategica che contribuisce non solo alla sostenibilità, ma anche al reshoring della filiera tessile, creando occupazione e salvaguardando competenze storiche.
La qualità del lino europeo è considerata la migliore al mondo. Il clima umido della Normandia e i terreni profondi permettono di ottenere fibre lunghe, forti e brillanti, particolarmente ricercate dai marchi del lusso. Non a caso, aziende come Safilin hanno riaperto stabilimenti in Francia dopo anni di crisi, spinte dall’aumento della domanda.
A questa rinascita contribuiscono anche le nuove tecnologie. La blockchain consente di certificare ogni fase della produzione, garantendo la tracciabilità necessaria in vista degli obblighi del Digital Product Passport. Innovazioni come ThermoSem, che disinfetta le sementi con semplice vapore acqueo, stanno inoltre favorendo varietà più resistenti e adatte ai cambiamenti climatici.
Il lino, dunque, non è solo una fibra tessile, ma il simbolo di come tradizione e innovazione possano incontrarsi per costruire un modello di moda sostenibile e circolare. La sua riscoperta dimostra che la sostenibilità non significa rinunciare alla qualità o al design, ma valorizzare risorse naturali e saperi antichi in chiave moderna.
Il settore della moda si trova oggi di fronte a una sfida che è anche un’opportunità storica: trasformarsi da industria percepita come tra le più inquinanti al mondo in motore di crescita sostenibile. La crisi delle vendite, le indagini sulla filiera e la crescente attenzione dei consumatori non devono essere viste solo come ostacoli, ma come stimoli per costruire un nuovo modello di sviluppo.
I brand più lungimiranti hanno compreso che il futuro passa attraverso la circolarità, la diversificazione dei ricavi, l’adozione di nuove tecnologie per la tracciabilità e il rispetto di normative sempre più stringenti.
Affinché la moda torni a essere non solo stile e tendenza, ma anche cultura e responsabilità sociale, serve però un cambio di mentalità. Le aziende devono superare l’approccio frammentario e integrare la sostenibilità in tutta la filiera: dalla progettazione al retail, dalla comunicazione al post-consumo. I consumatori, dal canto loro, devono continuare a premiare le scelte trasparenti e responsabili. Le istituzioni, infine, hanno il compito di accompagnare questa trasformazione con regole chiare e strumenti di sostegno.
In questo equilibrio tra creatività, impresa e responsabilità ambientale si gioca il futuro della moda che, se affrontato con coraggio e visione, può restituire al settore il suo ruolo simbolico di guida verso un domani più equo, innovativo e sostenibile.