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Obiettivi dell’Agenda 2030 a rischio

11 minuti di lettura
Obiettivi dell’Agenda 2030 a rischio

Nel 2025 il mondo produce e spreca molto cibo, forse troppo. Secondo la FAO (Food and Agriculture Organization of the United Nations), ogni anno vengono buttati 1,3 miliardi di tonnellate di alimenti, per un valore di 750 miliardi di dollari; in Italia, lo spreco alimentare pro capite supera i 146 chili all’anno, con un costo di oltre 16 miliardi di euro all’anno.  Eppure, nello stesso momento, milioni di persone, tra cui anche bambini, muoiono di fame.

(Fonte: https://www.fao.org/4/mb060e/mb060e00.pdf)

La tragedia che oggi si consuma nella Striscia di Gaza è emblematica: migliaia di morti per denutrizione, tra cui centinaia di bambini, in un territorio in cui gli aiuti umanitari vengono bloccati o dirottati. Una crisi umanitaria che non è frutto del caso, ma di scelte precise.

Il contrasto tra questa realtà e l’opulenza delle nazioni più ricche è stridente. Mentre si discute della fame del mondo, i negoziati internazionali si svolgono in contesti di lusso, lontani anni luce dalla disperazione delle vittime. È l’immagine plastica di un mondo in cui la sostenibilità e la parità sociale restano principi sulla carta, ignorati di fronte alle logiche economiche e agli interessi geopolitici.

Eppure, gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 ci ricordano che sconfiggere la fame e la povertà è un impegno che dovrebbe guidare ogni scelta politica ed economica.

La domanda da porsi è la seguente: perché, nonostante dati, strumenti e risorse, il divario continua ad allargarsi?

 

La fame nel mondo non è una statistica astratta, ma una realtà quotidiana per centinaia di milioni di persone.

I dati della FAO sono impietosi: ogni anno, a livello globale, si sprecano circa 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, quasi un terzo della produzione totale, per un valore stimato di 750 miliardi di dollari.

 

All’opposto di questo spreco, 700 milioni di individui vivono in condizioni di povertà estrema, sopravvivendo con meno di 1,90 dollari al giorno. L’11% della popolazione mondiale non riesce a soddisfare i bisogni primari come nutrirsi, avere accesso all’acqua potabile o ricevere cure mediche di base.

La fame, in molte aree del pianeta, è un ciclo che si autoalimenta, radicato in instabilità politica, disastri ambientali, conflitti armati e sistemi economici che escludono i più vulnerabili.

Il dato che più colpisce è quello relativo ai bambini. Secondo le Nazioni Unite, oltre 30 milioni di minori vivono in condizioni di povertà nei Paesi più ricchi del mondo. Questo significa che la fame e la malnutrizione non sono problemi confinati alle nazioni in via di sviluppo, ma si insinuano anche nelle economie avanzate, spesso nascoste dietro le statistiche macroeconomiche.

A Gaza, la fame assume i tratti di un’emergenza assoluta. La denutrizione colpisce soprattutto i più piccoli e i malati, portando a conseguenze irreversibili. L’assenza di accesso a cibo, acqua pulita e servizi sanitari essenziali trasforma la sopravvivenza in un obiettivo quotidiano quasi irraggiungibile.

Questi numeri non sono semplici dati da riportare nei rapporti internazionali: sono volti, storie, vite spezzate. Eppure, nel mondo opulento, l’attenzione verso questa tragedia è intermittente e frammentaria, spesso legata a picchi di interesse mediatico più che a un impegno costante e strutturale.

 

La crisi umanitaria a Gaza

La crisi umanitaria di Gaza è stata, fin dall’inizio, la cronaca di un disastro annunciato.

Già nel 2024 le organizzazioni internazionali avevano lanciato allarmi sulla possibilità che la popolazione finisse in una condizione di fame diffusa.

Il 2 marzo 2025, il governo israeliano ha adottato la decisione più dura: bloccare ogni forma di aiuto verso Gaza, compresi i beni di prima necessità. Una scelta che ha trasformato la guerra contro Hamas in una punizione collettiva, colpendo indistintamente civili, bambini, anziani e malati.

Oggi la fame è diventata un’arma di guerra. Non si tratta soltanto di mancanza di cibo, ma di un processo lento e devastante che indebolisce il corpo fino al collasso. I casi più gravi di malnutrizione non possono essere risolti semplicemente fornendo acqua e pasti abbondanti, senza cure mediche specializzate, l’esito è spesso fatale. Gli organi compromessi, i muscoli consumati e il sistema immunitario annientato trasformano le vittime in corpi fragili, esposti a infezioni che si rivelano letali.

Le conseguenze non si fermano al presente. Esiste una fame invisibile, che segna corpi e menti nel lungo periodo: quella delle generazioni future. I bambini cresciuti nella denutrizione porteranno traumi fisici e psicologici per tutta la vita; quelli non ancora nati da madri malnutrite affronteranno, sin dalla nascita, gravi deficit di salute. Come ha dichiarato Alex de Waal, uno dei massimi esperti mondiali di crisi umanitarie, “di questa fame subdola, che lascerà segni per le generazioni a venire, le autorità israeliane non possono non essere consapevoli”.

 

Dalla Costa Smeralda a Gaza

Paradosso del potere e simbolo delle disuguaglianze globali

Mentre a Gaza la popolazione lotta per sopravvivere, in altre parti del mondo si discute del loro destino in scenari diametralmente opposti. Uno degli incontri più recenti per affrontare la crisi, che ha visto coinvolti l’inviato della Casa Bianca Steve Witkoff e i rappresentanti dei governi di Israele e Qatar, si è svolto a bordo di uno dei mega yacht ormeggiati davanti alla Costa Smeralda, luogo simbolo del lusso internazionale.

Per il delegato americano sarebbe stato predisposto anche un soggiorno in uno degli hotel più esclusivi della zona, a conferma della distanza materiale e simbolica tra il tavolo dei negoziati e la realtà delle vittime. La scelta di una simile location, in un momento di emergenza umanitaria estrema, non può che apparire come un insulto alla dignità di chi muore di fame.

Il contrasto è talmente netto da diventare un’immagine perfetta del paradosso globale: da una parte, l’opulenza di un’élite che discute di soluzioni circondata da ogni comfort; dall’altra, un popolo che non ha tempo per attendere, perché ogni ora senza cibo e cure significa nuove morti.

Questa distanza, oltre che geografica o culturale, è anche etica, rendendo evidente uno dei più grandi ostacoli alla parità sociale e alla sostenibilità globale: l’incapacità di calare le decisioni politiche nella concretezza delle emergenze reali.

 

Agenda 2030 e SDGs a rischio

Conflitti, disuguaglianze e crisi alimentare allontanano il traguardo

Nel 2015, le Nazioni Unite hanno adottato l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, un programma globale articolato in 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) e 169 target specifici. Tra i primi e più urgenti figurano:

  • Goal 1: Sconfiggere la povertà.
  • Goal 2: Sconfiggere la fame.
  • Goal 3: Assicurare salute e benessere.
  • Goal 4: Garantire un’istruzione di qualità.
  • Goal 5: Raggiungere la parità di genere.
  • Goal 6: Garantire l’accesso ad acqua pulita e servizi igienico-sanitari.
  • Goal 7: Promuovere e rendere accessibile l’utilizzo di energia pulita.
  • Goal 8: Supportare la crescita economica e tutelare la dignità del lavoratore e della lavoratrice.

A meno di cinque anni dalla scadenza fissata per il 2030, i progressi sono ben lontani dagli obiettivi. Le disuguaglianze sociali, la povertà estrema e l’insicurezza alimentare non solo persistono, ma in molte aree del mondo sono peggiorate a causa di conflitti armati, crisi economiche e cambiamenti climatici.

Il caso di Gaza, pur non essendo isolato, è emblematico. Infatti, più di 700 milioni di persone vivono ancora con meno di 1,90 dollari al giorno, e circa il 70% di loro si trova nell’Asia meridionale e nell’Africa sub-sahariana. La povertà estrema colpisce in modo sproporzionato donne e bambini, alimentando un ciclo intergenerazionale di esclusione e vulnerabilità.

Ciò che colpisce è la distanza tra le dichiarazioni ufficiali e le azioni concrete.

Gli SDGs sono impegni sottoscritti a livello internazionale, che richiedono piani d’azione, investimenti e monitoraggio costante. Eppure, la risposta globale appare spesso frammentata e condizionata da interessi economici e geopolitici, relegando la lotta alla fame e alla povertà a un obiettivo secondario.

 

Se davvero si vuole raggiungere la sostenibilità, bisogna riconoscere che non esiste sviluppo economico duraturo senza giustizia sociale.

Gli SDGs dovrebbero essere la bussola di ogni politica pubblica e strategia aziendale, non semplici dichiarazioni da ribadire nei vertici internazionali.

 

Finanza e sostenibilità

Il caso della Borsa israeliana durante la crisi umanitaria a Gaza

La crescita economica, quando isolata dal contesto sociale, può trasformarsi in un indicatore fuorviante. Nel pieno della crisi umanitaria a Gaza, la Borsa israeliana ha raggiunto valori record: l’indice TA-125, che riunisce le 125 aziende israeliane più capitalizzate, è cresciuto di quasi il 30% dall’inizio del 2025 e di oltre il 50% negli ultimi dodici mesi.

Tra i titoli più performanti figura Elbit Systems, colosso della difesa e degli armamenti, quotato sia a Tel Aviv sia al Nasdaq, con un incremento stimato di oltre il 124% in un solo anno. Un andamento che riflette la domanda di forniture militari e le aspettative di stabilità relativa nell’area, piuttosto che un reale miglioramento delle condizioni di vita della popolazione.

Ed ecco spiegato il paradosso. Mentre i mercati celebrano profitti e rendimenti, sul terreno si moltiplicano le vittime della fame e della povertà. La logica finanziaria non contempla, nei suoi indici, il prezzo umano di determinate scelte politiche ed economiche.

La sostenibilità economica non può limitarsi a generare valore per gli investitori, deve includere la distribuzione equa dei benefici e la riduzione delle disuguaglianze.

Senza un legame strutturale tra crescita del PIL e benessere sociale, gli indicatori macroeconomici rischiano di diventare specchi deformanti, in grado di mascherare crisi profonde dietro numeri apparentemente positivi.

 

Il concetto stesso di sviluppo sostenibile implica che il progresso economico non debba compromettere né le risorse ambientali né l’equità sociale.

Un’economia che ignora la povertà, la fame e la vulnerabilità delle comunità non è sostenibile: è semplicemente miope.

 

Sostenibilità e parità sociale: il binomio per un futuro migliore

Sostenibilità e parità sociale sono due dimensioni che si rafforzano a vicenda e senza le quali non può esistere un vero sviluppo. Parlare di sostenibilità significa, sì, tutelare l’ambiente e le risorse naturali, ma anche garantire che i frutti della crescita economica siano distribuiti in modo equo.

La sostenibilità economica implica che un sistema sia in grado di crescere e prosperare nel tempo, preservando il benessere delle generazioni future. Non basta generare profitti: occorre farlo in un modo che tenga conto dell’impatto sociale e ambientale, bilanciando la crescita con l’efficienza delle risorse, la giustizia sociale e la stabilità finanziaria.

La parità sociale riguarda, invece, l’equa distribuzione delle opportunità e dei benefici dello sviluppo. Ciò significa ridurre le disuguaglianze, garantire pari accesso a istruzione, lavoro, salute e risorse, assicurarsi che nessuno venga lasciato indietro, in particolare le persone e le comunità più vulnerabili.

Questi due principi si intrecciano anche nella lotta contro la povertà estrema: non basta aiutare le persone a uscire dalla condizione e dalla situazione, bisogna anche impedire che vi ricadano. Affinché ciò avvenga, sono necessari sistemi di protezione sociale solidi, politiche pubbliche inclusive e una cultura politica ed economica orientata al lungo termine.

Molto rilevante è la parità di genere. Quando le donne partecipano pienamente all’economia, si registra una maggiore crescita, innovazione e stabilità. Investire nell’educazione femminile e garantire pari opportunità di lavoro non è solo una questione di diritti, ma una strategia di sviluppo sostenibile.

 

Lo sviluppo economico può dirsi veramente “sostenibile” solo se è anche equo e inclusivo, capace di migliorare la qualità della vita per tutti e non solo per una minoranza.

 

Di fronte a una tragedia umanitaria di queste proporzioni, l’indignazione non basta. Serve un’azione coordinata e determinata per affrontare le cause profonde della fame e della povertà, a Gaza come in ogni altra parte del mondo.

Il primo passo è garantire l’equidistribuzione delle risorse. Il pianeta produce abbastanza cibo per nutrire tutti e tutte, eppure le disuguaglianze di accesso restano enormi. È necessario intervenire con politiche internazionali vincolanti che impediscano il blocco o il dirottamento degli aiuti umanitari, soprattutto in aree di conflitto.

Parallelamente, occorre rafforzare i sistemi di protezione sociale per impedire che chi esce dalla povertà vi ricada e investire in progetti di sviluppo sostenibile che integrino economia, ambiente e giustizia sociale. Solo così sarà possibile ridurre i costi umani ed economici legati alle migrazioni forzate e alle emergenze croniche.

 

La sostenibilità economica non deve essere un concetto teorico o un’etichetta da esibire nei vertici internazionali: deve tradursi in scelte concrete, capaci di mettere la vita umana al di sopra delle logiche di profitto e delle convenienze politiche.

 

Come società globale, dobbiamo gettare il cuore oltre l’ostacolo, abbandonando l’idea che l’aiuto sia un atto di beneficenza e riconoscendolo invece come un dovere reciproco. Ridurre il divario tra le ricchezze dei popoli non renderà soltanto più giusto il mondo, ma lo renderà più sicuro e stabile.

 

La vera ricchezza non si misura nei bilanci delle aziende o negli indici di Borsa, ma nella capacità di unire progresso e umanità. Solo quando avremo garantito a ciascun essere umano il diritto fondamentale al cibo, alla salute e alla dignità, potremo dire di vivere in un mondo davvero sostenibile.

 

Foto del profilo di Piero di Bello
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