“Il cambiamento climatico è una delle più grandi sfide del nostro tempo e richiede una risposta collettiva, immediata e concreta.”
Con queste parole, l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile lancia un appello chiaro agli Stati, alle imprese e ai cittadini. L’Obiettivo 13, dedicato alla lotta contro il cambiamento climatico, non è solo uno dei 17 Sustainable Development Goals (SDGs), ma rappresenta una priorità trasversale che condiziona il raggiungimento di tutti gli altri obiettivi globali: dalla salute all’istruzione, dall’equità sociale alla crescita economica.
Negli ultimi decenni, il riscaldamento globale e l’aumento delle emissioni di gas serra hanno reso sempre più evidenti gli effetti della crisi climatica, quali eventi meteorologici estremi, siccità, innalzamento dei mari, perdita di biodiversità, migrazioni forzate, instabilità economiche.
L’impatto è planetario, ma le conseguenze si avvertono localmente, anche nelle nostre città e comunità.
Per fronteggiare questi fenomeni, la comunità internazionale ha introdotto una serie di strategie, accordi e strumenti normativi a livello globale, europeo e nazionale.
Dall’Accordo di Parigi al Green Deal europeo, passando per il PNRR italiano, si delinea un percorso condiviso verso un modello di sviluppo più sostenibile, giusto e resiliente.
Il cambiamento climatico non conosce confini. È un fenomeno globale che richiede risposte condivise, capaci di unire visioni politiche, risorse economiche e responsabilità etiche.
La comunità internazionale ha cominciato a riconoscere questa urgenza in modo più strutturato a partire dal 2015, anno chiave per l’agenda ambientale del XXI secolo.
Da un lato, l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, con i suoi 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, ha sancito l’inizio di un nuovo approccio integrato alle politiche globali.
Dall’altro, l’Accordo di Parigi sul Clima, adottato sempre nel 2015, ha rappresentato la prima risposta concreta alla necessità di una governance ambientale globale, con un linguaggio comune e impegni vincolanti.
L’Accordo di Parigi non è solo un trattato internazionale, ma il tentativo più ambizioso, fino ad oggi, di coordinare gli sforzi mondiali contro il riscaldamento globale. Per la prima volta, quasi tutti i Paesi del mondo hanno condiviso un obiettivo comune: limitare l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C, puntando a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali.
Per raggiungere questo traguardo, ogni Stato ha definito un proprio piano d’azione – il cosiddetto Nationally Determined Contribution (NDC) – da aggiornare periodicamente in base ai progressi e alle nuove evidenze scientifiche. Questo sistema a “ciclo continuo” rende l’accordo dinamico e adattabile, ma soprattutto responsabilizza ciascun Paese, ponendo le basi per una collaborazione effettiva.
L’impianto dell’Accordo di Parigi si regge su tre direttrici principali: mitigazione, adattamento e finanza per il clima.
Nel dicembre 2023, la COP28 di Dubai ha riacceso i riflettori sulla sfida climatica. I risultati sono stati definiti da molti come “storici”, ma non senza riserve. Per la prima volta, in sede ufficiale si è riconosciuta la necessità di una transizione dai combustibili fossili. Questa dichiarazione è stata a lungo attesa, ma è bene precisare che si limita la settore energetico, escludendo l’impiego di fonti fossili in ambiti come plastica, trasporti e agricoltura.
La COP28 ha anche lanciato il Global Stocktake, un processo di revisione quinquennale dei risultati raggiunti rispetto agli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Un bilancio collettivo, utile per correggere la rotta e rendere il percorso più trasparente ed efficace.
Non sono mancate le discussioni sulle nuove tecnologie per la mitigazione climatica, come la cattura e lo stoccaggio della CO₂ o altri sistemi di fissazione del carbonio. Tecnologie ancora in fase sperimentale, dal potenziale enorme ma dagli effetti non del tutto noti, che pongono interrogativi etici, economici e ambientali.
Mentre il cambiamento climatico impone nuove priorità a livello globale, l’Unione Europea ha scelto da tempo di porsi all’avanguardia, tracciando una rotta ambiziosa e articolata. Il suo approccio non si limita alla tutela dell’ambiente: abbraccia l’economia, l’energia, l’agricoltura, i trasporti e le politiche sociali, nella consapevolezza che la sostenibilità deve diventare il principio guida di ogni ambito della vita pubblica e produttiva.
Tra le iniziative più efficaci, anche se poco conosciute al grande pubblico, c’è il Patto dei Sindaci per il Clima e l’Energia, nato per coinvolgere direttamente le amministrazioni locali nella transizione ecologica. Le città, che più di ogni altro spazio vivono gli effetti del cambiamento climatico e ne subiscono le conseguenze, si sono assunte l’impegno di ridurre le emissioni, adattarsi ai nuovi rischi ambientali, garantire un accesso equo e sostenibile all’energia. Firmare il Patto significa, quindi, condividere una visione comune da realizzare entro il 2050, con piani d’azione concreti, misurabili e partecipati.
La Commissione Europea, nella Comunicazione al Parlamento Europeo n. 739 del 2016, dal titolo Il futuro sostenibile dell’Europa: prossime tappe, aveva già fissato un traguardo intermedio, impegnandosi alla riduzione delle emissioni del 20% entro il 2020, dichiarando, successivamente, con il Documento di riflessione n. 22 del 2019 Verso un’Europa sostenibile entro il 2023, di essere sulla buona strada per la riduzione delle emissioni entro il 2020.
Il Consiglio Europeo, nel quadro dell’attuazione dell’Accordo di Parigi ha assunto esplicitamente l’impegno per una transizione verde socialmente equa e giusta, preannunciando l’adozione della Strategia europea sui cambiamenti climatici, in occasione della Convention mondiale sul Clima (UNFCC) di Madrid nel dicembre 2019.
Il Green Deal europeo, presentato dalla Commissione nel 2019, nasce come risposta sistemica alla crisi climatica e ambientale. Non si tratta di una semplice politica ambientale, ma di un nuovo modello di crescita, che punta a rendere l’Europa il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050.
Il cuore del Green Deal è la trasformazione dell’economia: più pulita, più efficiente, ma anche più equa.
Le parole d’ordine sono circolarità, decarbonizzazione, efficienza energetica e innovazione tecnologica.
L’obiettivo, piuttosto ambizioso, è il seguente: convertire settori chiave come l’energia, i trasporti, l’agricoltura e l’industria, rendendoli capaci di contribuire, non solo di adattarsi, al processo di transizione.
Per tradurre questi obiettivi in misure concrete, l’Unione Europea ha lanciato nel 2021 il pacchetto legislativo “Fit for 55”, che prevede la riduzione delle emissioni climalteranti del 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Questo pacchetto disegna un percorso operativo, fatto di nuove regole, incentivi e meccanismi di controllo. Tra i punti centrali, vi è la revisione del sistema di scambio delle emissioni, un nuovo meccanismo di adeguamento alle frontiere per tutelare le imprese europee dalla concorrenza internazionale più inquinante, e il rafforzamento degli investimenti destinati ai territori più esposti alla transizione, per garantire equità sociale ed economica.
In questo quadro, l’Europa mette a disposizione risorse finanziarie ingenti, strumenti normativi avanzati e un orizzonte politico chiaro. Perché la transizione ecologica, per essere efficace, non può essere lasciata alla sola buona volontà dei singoli: ha bisogno di una strategia comune, condivisa e lungimirante.
Se l’Unione Europea ha indicato la rotta della sostenibilità, ogni Stato membro è chiamato a tradurre quelle direttive in interventi concreti, modellati sulla propria realtà territoriale, economica e sociale. Anche l’Italia, negli ultimi anni, ha intrapreso un percorso più strutturato per affrontare il cambiamento climatico e le sue conseguenze, combinando azioni legislative, investimenti pubblici e riforme strategiche.
Uno dei passaggi più significativi è stato l’inserimento della tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi tra i principi fondamentali della Costituzione italiana.
Affermare che l’ambiente è un valore costituzionalmente protetto significa riconoscerne la centralità per il benessere collettivo e per i diritti delle generazioni future. Ma, soprattutto, ancorare le politiche ambientali a un fondamento giuridico stabile e non negoziabile.
Parallelamente, è stata avviata una piattaforma programmatica per il contrasto al cambiamento climatico, che integra normative, investimenti e misure operative. Il nostro Paese ha adottato strumenti per migliorare la qualità dell’aria, in linea con la Direttiva europea n. 50 del 28 maggio 2008, e per rafforzare la prevenzione del dissesto idrogeologico e la resilienza degli ecosistemi.
Il cuore della strategia italiana è rappresentato dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), denominato “Italia Domani”, che si inserisce nel più ampio programma europeo “Next Generation EU”.
Il PNRR destina quasi 60 miliardi di euro alla “Rivoluzione verde e transizione ecologica”, una delle sei missioni chiave del piano. Si tratta di un investimento senza precedenti, che coinvolge ambiti strategici: dall’economia circolare alla riforestazione, dalla ricerca sulle energie rinnovabili alla mobilità sostenibile.
Nel dettaglio, le risorse del PNRR sono state indirizzate verso:
Una menzione particolare merita la nuova Strategia nazionale per l’economia circolare, che mira a ridurre del 50% la produzione di scarti e rifiuti entro il 2040. In questo ambito, il PNRR gioca un ruolo decisivo: finanzia impianti innovativi per il recupero dei materiali, sostiene la progettazione ecocompatibile e incentiva modelli di produzione e consumo più responsabili.
Va sottolineato che questi interventi non si limitano agli aspetti tecnici. L’intero impianto del PNRR prevede anche un’azione di lungo periodo sul piano culturale e sociale. In particolare, è stato riconosciuto il ruolo fondamentale dell’educazione alla sostenibilità come leva per la trasformazione.
Cambiare modelli economici richiede, inevitabilmente, la modifica dei comportamenti quotidiani, delle abitudini di consumo, delle scelte individuali e collettive.
La transizione ecologica non è più un progetto settoriale, ma una visione di sistema. Una trasformazione che tocca la politica, le imprese, i territori, le famiglie. E che può funzionare solo se sostenuta da strumenti concreti, da investimenti stabili e da una reale volontà di cambiamento.
Uno dei settori più energivori e inquinanti in Europa è l’edilizia. Le nostre case, gli uffici, gli edifici pubblici: tutto ciò che costituisce il parco immobiliare contribuisce in modo significativo alle emissioni di gas serra. Migliorarne l’efficienza energetica non è quindi un’azione accessoria, ma un pilastro della transizione climatica. Ed è proprio in quest’ottica che si inserisce la nuova Direttiva EPBD (Energy Performance of Buildings Directive), ribattezzata “Case Green”.
Questa normativa ambiziosa, adottata dall’Unione Europea, mira a raggiungere un traguardo preciso: un patrimonio edilizio a emissioni zero entro il 2050, prevedendo anche tappe intermedie per il 2030 e il 2035, con obiettivi di miglioramento progressivo sia per gli edifici esistenti sia per le nuove costruzioni.
Per quanto riguarda gli immobili già presenti sul territorio, gli Stati membri sono chiamati ad adottare piani nazionali di ristrutturazione, sia in ambito residenziale che non residenziale.
Si prevede, entro il 2030, una riduzione del consumo medio di energia primaria del 16%, che dovrà poi salire a un 20–22% entro il 2035, rispetto ai livelli registrati nel 2020. È una sfida importante, che richiederà una forte sinergia tra pubblico e privato, tra incentivi fiscali e capacità tecnica.
I nuovi edifici, invece, dovranno rispettare parametri ancora più stringenti. A partire dal 2030, ogni nuova costruzione dovrà essere a emissioni zero, con un anticipo di due anni (il 2028) per gli edifici pubblici. Per questi ultimi, inoltre, sono previste quote obbligatorie di ristrutturazione: almeno il 16% entro il 2030 e il 26% entro il 2033.
L’obiettivo è spingere le amministrazioni pubbliche a dare il buon esempio, trasformando i propri immobili in modelli virtuosi di efficienza.
Una delle novità più interessanti introdotte dalla direttiva è il “passaporto di ristrutturazione”.
Si tratta diun documento digitale che accompagnerà ogni edificio nel proprio percorso di miglioramento energetico, fornendo una roadmap personalizzata per i lavori necessari. In parallelo, gli Stati sono incoraggiati a promuovere investimenti in soluzioni sostenibili, attivando strumenti come detrazioni fiscali, crediti d’imposta o agevolazioni mirate.
Ma la Direttiva EPBD guarda anche al futuro del riscaldamento domestico. Entro il 2040, l’obiettivo è eliminare le caldaie alimentate esclusivamente da combustibili fossili. In questo ambito si sta facendo strada una soluzione intermedia: l’utilizzo del biometano, una fonte rinnovabile che può sfruttare le infrastrutture esistenti. Tuttavia, l’adozione su larga scala richiederà ulteriori incentivi, considerando che i fondi del PNRR saranno esauriti ben prima del 2026.
Nel complesso, la Direttiva “Case Green” rappresenta un passo decisivo verso la decarbonizzazione dell’edilizia europea. Non solo per il suo impatto ambientale, ma per l’effetto che può generare su tutta la filiera: dalla progettazione alle costruzioni, dai materiali agli impianti, fino alla finanza sostenibile.
È un cambiamento che tocca le abitazioni, le città e il modo stesso di concepire lo spazio abitato.
E che ci chiede, oggi più che mai, di pensare alla casa non come a un bene immobile, ma come a un bene in movimento verso il futuro.
Il percorso verso un’economia sostenibile è stato avviato. I dati, le strategie e gli interventi analizzati finora dimostrano che il cambiamento climatico non è più un tema del futuro, ma una sfida attuale che coinvolge politiche pubbliche, scelte imprenditoriali, abitudini quotidiane.
I cambiamenti strutturali richiedono tempo, ma anche visione e responsabilità. È necessario evitare che le misure ambientali si esauriscano nel breve termine o vengano percepite come imposizioni.
La sfida è costruire una nuova idea di sviluppo, capace di generare benessere senza compromettere le risorse naturali, di creare lavoro senza distruggere gli ecosistemi, di produrre crescita senza aumentare diseguaglianze.
Il vero cambiamento passa anche dalla consapevolezza individuale.
Ogni cittadino, ogni impresa, ogni ente locale è chiamato a svolgere un ruolo.
Non si tratta più di scegliere se agire o meno, ma di decidere come farlo e con quale intensità.
Sostenibilità, in fondo, significa trovare equilibrio tra presente e futuro, tra ambiente e progresso, tra diritti acquisiti e responsabilità condivise.
È un cammino complesso, ma è l’unico possibile.