In Italia il mercato del lavoro vive una contraddizione evidente. Da un lato le imprese denunciano una costante carenza di figure professionali, in particolare tecnici, operai specializzati e profili STEM (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica); dall’altro i giovani faticano a trovare occupazioni che percepiscono come dignitose, stimolanti e sostenibili. Questo mismatch non è un fenomeno recente, ma negli ultimi anni si è acuito, portando a un esodo di competenze verso l’estero e a un progressivo impoverimento della forza lavoro nazionale.
Quali sono le ragioni? In verità, sono molteplici.
Un sistema formativo che non sempre dialoga con le esigenze del mercato; salari percepiti come poco competitivi, scarse prospettive di carriera; e, soprattutto, un approccio culturale al lavoro rimasto ancorato a logiche produttivistiche del passato.
Per troppo tempo il dipendente è stato considerato un semplice prestatore di manodopera, senza ascolto e attenzione verso i bisogni personali e professionali.
Oggi, però, la situazione sta cambiando. Con l’emergere dei criteri ESG (Environmental, Social, Governance) e con la crescente sensibilità verso i temi sociali e ambientali, il concetto di lavoro sostenibile è diventato centrale. Non si tratta solo di garantire un reddito, ma di offrire ambienti di lavoro inclusivi, sicuri, rispettosi della dignità delle persone e capaci di coniugare produttività e benessere.
Senza un’evoluzione culturale e organizzativa in chiave sostenibile, il mercato del lavoro italiano rischia di rimanere poco attrattivo per le nuove generazioni e di compromettere la competitività delle imprese nel lungo periodo.
La difficoltà a reperire figure professionali qualificate è diventata una delle principali emergenze del mercato del lavoro italiano. Secondo recenti rilevazioni di Unioncamere e ANPAL, oltre il 45% delle imprese segnala problemi nel trovare i profili richiesti, con picchi che superano il 60% per settori ad alta specializzazione tecnica. Le figure STEM (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica), insieme agli operai specializzati e ai tecnici, sono quelle più ricercate, ma anche più difficili da inserire.
Le cause di questo fenomeno sono diverse:
Il sistema educativo non sempre dialoga con le reali esigenze delle imprese. Troppi studenti scelgono percorsi che non garantiscono un inserimento rapido nel mercato, mentre mancano programmi mirati su competenze tecniche e digitali avanzate.
Molti lavori manuali o operativi continuano a essere percepiti come “mestieri di serie B”, poco gratificanti e privi di riconoscimento sociale.
Rispetto alla media europea, le retribuzioni offerte in Italia risultano meno competitive e con poche possibilità di crescita nel lungo termine.
A tutto questo si somma un fenomeno altrettanto critico: la fuga dei cervelli.
I giovani con un bagaglio culturale e professionale spendibile scelgono di trasferirsi all’estero, attratti da opportunità più stimolanti e da contesti lavorativi percepiti come inclusivi, moderni e meritocratici. L’Italia, invece, offre spesso percorsi bloccati, scarsa mobilità sociale e un approccio tradizionale che fatica a valorizzare le competenze emergenti.
Le conseguenze di questo quadro sono, a dir poco, preoccupanti.
Si assiste a un continuo impoverimento del capitale umano, si registra l’invecchiamento della forza lavoro e l’innovazione e la produttività subiscono un grave rallentamento.
Il rischio è quello di diventare un Paese non solo “vecchio” anagraficamente, ma anche culturalmente e professionalmente, incapace di trattenere i talenti e di competere a livello internazionale.
Il lavoro in Italia, così come è stato strutturato finora, non è sostenibile.
Non basta più puntare sull’ottimizzazione della produzione o sul contenimento dei costi, occorre ridisegnare i luoghi e i modi di lavorare per renderli attrattivi, inclusivi e capaci di valorizzare i giovani. Senza questa trasformazione, la spirale negativa di carenza di competenze e migrazione dei talenti non potrà che aggravarsi.
Per comprendere il distacco crescente tra giovani e mondo del lavoro in Italia, occorre guardare alle radici culturali e organizzative del nostro sistema produttivo. Per decenni, il modello dominante è stato fondato su due pilastri: massimizzazione della produzione e ottimizzazione delle risorse.
In questa logica, il dipendente veniva considerato principalmente come un “fattore produttivo”, una risorsa da impiegare e sostituire, più che una persona con aspirazioni, bisogni e valori propri.
Questa visione ha funzionato in un contesto industriale del Novecento, quando la priorità era aumentare la produttività e ridurre i costi. Ma oggi il quadro è completamente cambiato. Le nuove generazioni non cercano soltanto un posto di lavoro stabile, chiedono riconoscimento, crescita, equilibrio tra vita privata e professionale, partecipazione a progetti con un senso e un impatto positivo.
Il Covid-19 ha accelerato questa trasformazione. La pandemia ha messo al centro la salute, la sicurezza e la possibilità di conciliare tempi di vita e tempi di lavoro. Ha fatto emergere con forza la fragilità di un modello basato esclusivamente sulla produttività e ha reso evidente che il benessere dei lavoratori non è un lusso, ma una condizione necessaria per la resilienza delle imprese.
A questo cambiamento si aggiunge l’evoluzione della sensibilità collettiva verso i temi ESG (Environmental, Social, Governance). La sostenibilità non è più legata soltanto all’impatto ambientale delle aziende, ma abbraccia anche la dimensione sociale e quella organizzativa.
Un’impresa sostenibile è quella che:
Il lavoro sostenibile è un paradigma che considera il dipendente non come un mero esecutore, ma come parte integrante di un ecosistema in cui la competitività dell’azienda dipende dal coinvolgimento e dalla soddisfazione delle persone che vi lavorano.
Le imprese che hanno continuato a ignorare questo cambio di prospettiva, mantenendo un approccio centrato sul comando e sul controllo, hanno spesso assistito a fenomeni di turnover elevato, calo della motivazione e difficoltà a trattenere i talenti. Al contrario, quelle aziende che hanno saputo innovare il proprio modello organizzativo, puntando sulla sostenibilità, hanno registrato maggiore capacità di attrarre giovani, consolidare i team e affrontare con resilienza le sfide globali.
Non sono i giovani a essere cambiati, è il mondo del lavoro che non si è evoluto abbastanza. E se il contesto italiano non saprà trasformarsi in un ambiente sostenibile, inclusivo e competitivo, continuerà a perdere risorse preziose a vantaggio di Paesi più lungimiranti.
Quando parliamo di sostenibilità sul luogo di lavoro, spesso la mente corre subito ai temi ambientali: uffici più green, riduzione degli sprechi, attenzione all’impronta ecologica. Ma la verità è che la sostenibilità, se la guardiamo nella sua interezza, è qualcosa di molto più ampio.
Riguarda le persone, il modo in cui vengono trattate, ascoltate, valorizzate. È un concetto che unisce benessere, rispetto e crescita condivisa.
Negli ultimi anni, infatti, sta emergendo con sempre più forza l’idea che un luogo di lavoro non può essere considerato sostenibile se non garantisce equità, inclusione e pari opportunità. Questo perché un ambiente che discrimina, esclude o non valorizza la diversità finisce inevitabilmente per essere fragile, inefficiente e poco attrattivo.
I numeri spiegano chiaramente quanto sta accadendo. Oltre la metà dei lavoratori italiani dichiara di aver sperimentato almeno una forma di discriminazione nell’ultimo anno. Le più frequenti riguardano l’età, seguite dal genere e dal background sociale. E sono proprio questi episodi, spesso sommersi o minimizzati, a incidere in maniera profonda sulla motivazione delle persone e sulla loro scelta di restare o meno in un’azienda.
Il paradosso è che ciò che viene visto come un “problema”, ossia la diversità, in realtà può diventare una risorsa preziosa. Pensiamo, ad esempio, al tema dell’invecchiamento demografico. In un continente come l’Europa, i lavoratori senior rappresentano un capitale di competenze ed esperienza che può arricchire le nuove generazioni. Valorizzarli significa costruire un ponte tra passato e futuro, anziché alimentare uno scontro generazionale.
E lo stesso vale per la parità di genere. Troppo spesso le donne incontrano ancora il famoso “soffitto di vetro” che impedisce loro di accedere alle posizioni di vertice. Nonostante i progressi e l’impegno delle istituzioni europee, i dati mostrano come la rappresentanza femminile nei ruoli decisionali resti ancora insufficiente. È una questione di giustizia, certo, ma anche di competitività: più il team di comando è vario, più un’azienda riesce a essere innovativa e a rispondere con agilità alle sfide del mercato.
L’inclusione, quindi, non può più essere vista come un obbligo da spuntare in una checklist aziendale. È piuttosto un fattore strategico, capace di generare valore concreto. Un ambiente di lavoro inclusivo non solo trattiene i talenti, ma li fa fiorire: le persone si sentono parte di un progetto, riconosciute per ciò che sono e motivate a dare il meglio.
Non c’è sostenibilità vera senza un impegno serio contro le discriminazioni; non c’è inclusione che tenga senza un contesto organizzativo che sappia guardare al futuro con responsabilità.
Se fino a pochi anni fa il tema della sostenibilità sul lavoro sembrava legato più alla sensibilità delle singole aziende che a un reale obbligo, oggi la cornice normativa europea sta cambiando radicalmente le regole del gioco. Le istituzioni hanno compreso che, senza strumenti concreti e vincolanti, la parità di trattamento rischia di restare un principio astratto, buono solo per i convegni.
Un passo decisivo è arrivato con la Direttiva UE 970/2023, che introduce norme molto più stringenti sulla trasparenza retributiva e sulla lotta alle discriminazioni salariali tra uomini e donne. La novità è significativa: non si guarda più soltanto al singolo datore di lavoro, ma si allarga l’analisi all’intero contesto contrattuale, includendo i contratti collettivi nazionali e persino situazioni analoghe in altri ambiti. Questo significa che, per la prima volta, le lavoratrici e i lavoratori avranno strumenti più concreti per confrontare trattamenti economici e individuare eventuali disparità.
In Italia, l’applicazione di queste norme impone alle aziende di avviare una vera e propria fase di assesment interno. Occorre capire dove si annidano le differenze di trattamento. Non solo nei ruoli chiaramente divisi per genere, ma anche in quelle mansioni cosiddette “neutre”, che non sono legate a un genere specifico. L’analisi dovrà essere accurata e, soprattutto, documentata: non basteranno dichiarazioni di principio, serviranno dati chiari, report e confronti verificabili.
Parallelamente, non si può dimenticare l’impatto che hanno avuto i movimenti sociali internazionali. Campagne come #MeToo, Black Lives Matter e Time’s Up hanno riportato al centro del dibattito pubblico i temi di giustizia, uguaglianza e inclusione. Molte multinazionali hanno risposto con programmi di Diversità, Equità e Inclusione (DEI), inserendo la parità di trattamento tra gli obiettivi aziendali e riconoscendo che non si tratta di un “valore accessorio”, ma di una leva essenziale per la crescita e la reputazione.
Non si tratta solo di norme da rispettare o di movimenti da ascoltare. Ciò che emerge con chiarezza è che il futuro del lavoro sostenibile sarà sempre più regolato da una combinazione di vincoli giuridici e spinte culturali. Le aziende che sapranno anticipare questo cambiamento, anziché subirlo, avranno un vantaggio competitivo. Quelle che resteranno ferme rischiano, invece, di trovarsi ai margini di un mercato che richiede sempre più trasparenza, responsabilità e inclusione.
Negli ultimi anni molte aziende italiane hanno iniziato a parlare di corporate wellbeing, ma non sempre con la giusta attenzione. Troppo spesso, infatti, il concetto viene ridotto all’erogazione di qualche bonus, a convenzioni con palestre o a iniziative spot che, sebbene apprezzabili, non scalfiscono davvero il modo in cui il lavoro è organizzato. È un approccio superficiale, che rischia di trasformare il benessere in una semplice leva di marketing, anziché in un pilastro strategico.
Il corporate wellbeing autentico significa pensare al benessere dei collaboratori in maniera olistica e strutturata, integrandolo nella cultura aziendale e nei processi organizzativi. Non è un costo, ma un investimento. Secondo una ricerca condotta da Jointly con The European House – Ambrosetti, un approccio di questo tipo può aumentare del 30% il coinvolgimento e la produttività dei dipendenti, generando un valore economico fino a 4,5 volte superiore all’investimento iniziale. Per fare un esempio: a fronte di una spesa media di circa 2.500 euro pro capite in programmi di wellbeing, il valore di mercato creato per il collaboratore supera gli 11.000 euro.
È necessario andare oltre i numeri e capire cosa significa, concretamente, benessere organizzativo. Dopo la pandemia, i lavoratori hanno espresso con maggiore chiarezza bisogni che vanno oltre l’aspetto professionale. Sono richieste che non riguardano solo i giovani, ma anche le fasce di età intermedie, spesso schiacciate tra la cura dei figli piccoli e l’assistenza a genitori anziani non autosufficienti. In Italia, parliamo di circa 4,5 milioni di lavoratori-caregiver: persone che ogni giorno devono gestire carichi familiari e professionali, con un impatto diretto sulla loro produttività e sulla loro qualità di vita.
Un’azienda che ignora questi bisogni rischia di perdere risorse preziose, perché i lavoratori, oggi più che mai, scelgono il datore di lavoro anche in base alla sua capacità di prendersi cura delle persone.
Non basta promettere un buono pasto o una palestra convenzionata, serve una strategia di wellbeing autentica, che includa flessibilità negli orari, possibilità di lavoro da remoto, percorsi di crescita chiari, attenzione alla salute mentale e, soprattutto, ascolto continuo.
Il benessere non si compra con un benefit estemporaneo, ma si costruisce nel tempo, con scelte coerenti e con leader capaci di incarnare i valori di rispetto e attenzione.
Parlare di wellbeing è importante, ma non basta, occorre tradurre questa visione in strategie concrete.
La prima leva, naturalmente, resta quella retributiva. Non possiamo ignorare il fatto che in Italia gli stipendi medi sono tra i più bassi d’Europa e che questo costituisce un forte incentivo all’emigrazione. Offrire salari competitivi è il punto di partenza, ma non l’unico elemento determinante. A fianco del compenso economico, le persone cercano benefit mirati e personalizzati, come la possibilità di lavorare in modalità ibrida o da remoto, servizi di welfare che supportino la vita familiare, programmi di formazione finanziati dall’azienda.
Un’altra strategia è la definizione di percorsi di carriera chiari e trasparenti. I giovani vogliono sapere che il loro impegno potrà tradursi in crescita professionale, senza restare intrappolati in posizioni stagnanti. Quando un’azienda comunica obiettivi concreti, tempi di avanzamento e strumenti di valutazione basati sul merito, trasmette fiducia e motivazione.
C’è poi il tema dei valori aziendali. Sempre più candidati scelgono realtà che dimostrano coerenza tra dichiarazioni e azioni, soprattutto in ambito di sostenibilità e inclusione. Un’azienda che investe in pratiche ambientali responsabili, che adotta politiche serie di diversità e inclusione (D&I) e che promuove la meritocrazia si presenta come un luogo attrattivo non solo per lavorare, ma per costruire un futuro.
Infine, la cultura organizzativa. Non basta introdurre benefit o stipendi più alti se l’ambiente di lavoro resta segnato da logiche di controllo rigido, mancanza di ascolto o favoritismi. Le persone desiderano contesti in cui il talento viene riconosciuto e premiato, dove la trasparenza è reale e non di facciata, e dove si respira fiducia reciproca. È in questo clima che nascono l’innovazione e la fedeltà all’azienda.
Le imprese che hanno compreso questi meccanismi hanno già visto i risultati: meno turnover, più produttività, maggiore capacità di attrarre profili qualificati. Quelle che, invece, si ostinano a replicare modelli del passato, rischiano di vedere i propri giovani migliori partire e di restare intrappolate in una spirale di mediocrità.
Per quanto importanti, le iniziative delle singole aziende non bastano a invertire la rotta. Se il mercato del lavoro italiano continua a perdere giovani e competenze, significa che serve un intervento più ampio, capace di coinvolgere le istituzioni e l’intero sistema Paese.
Il primo fronte riguarda le politiche di welfare e flessibilità. In un contesto in cui milioni di lavoratori si trovano a conciliare professione e responsabilità familiari, lo Stato deve creare le condizioni per un equilibrio sostenibile. Incentivi strutturali per lo smart working, servizi di assistenza all’infanzia e agli anziani, strumenti di sostegno ai caregiver, al fine di alleggerire il carico sulle persone e rendere il lavoro più accessibile e inclusivo.
C’è poi il tema della formazione. Il mismatch tra competenze richieste dalle imprese e quelle fornite dal sistema educativo è una delle cause principali della carenza di profili qualificati. Occorre rafforzare i legami tra scuole, università e aziende, con programmi di formazione mirata e percorsi professionalizzanti che preparino i giovani ai mestieri del futuro. Non parliamo solo di ingegneri o tecnici specializzati, ma anche di nuove figure legate alla transizione digitale ed ecologica.
Un altro nodo da sciogliere è quello della meritocrazia. In Italia, la percezione diffusa è che le carriere siano spesso bloccate da favoritismi, rigidità burocratiche o logiche di anzianità più che di competenza. Questo clima scoraggia i giovani, che non vedono premiato il proprio talento, e alimenta la fuga all’estero. Serve un cambio di mentalità, che riporti al centro il merito come criterio di selezione e di crescita.
Infine, non possiamo ignorare l’importanza di investimenti pubblici e privati. Senza risorse dedicate alla ricerca, all’innovazione e alla creazione di poli tecnologici competitivi, l’Italia non sarà mai in grado di trattenere i suoi migliori talenti. Un Paese che offre opportunità di crescita in settori avanzati diventa automaticamente più attrattivo, perché garantisce prospettive reali e non solo promesse.
Il problema non è che i giovani “non hanno voglia di lavorare”, come spesso si sente dire, ma bisogna andare oltre e rendersi conto che il sistema non ha saputo adattarsi ai loro bisogni e al nuovo contesto globale.
Per rendere il lavoro in Italia davvero sostenibile e competitivo, serve un’azione congiunta: aziende più attente e responsabili, ma anche istituzioni capaci di creare un terreno fertile in cui il talento possa mettere radici e prosperare.
Le strategie, le normative e i benefit hanno un valore concreto, ma rischiano di rimanere inefficaci se non sono accompagnati da un vero cambiamento culturale. È proprio qui che l’Italia, più di altri Paesi europei, mostra ancora un certo ritardo.
Oggi i giovani non cercano solo uno stipendio, ma un progetto che abbia senso. Vogliono sentirsi parte di un percorso che rifletta i loro valori, che dia spazio alla creatività e che lasci margini di libertà e flessibilità. Per questo le aziende devono imparare a guardare il lavoro non come una semplice transazione economica, ma come un rapporto di fiducia reciproca, in cui si investe per crescere insieme.
Adottare un mindset diverso significa accettare l’idea che i modelli organizzativi del passato non siano più sufficienti. La rigidità, il controllo ossessivo, le gerarchie troppo verticali non attraggono più e anzi, rischiano di allontanare i talenti migliori. Al contrario, aprirsi a nuove modalità di gestione, sperimentare team più orizzontali, favorire la collaborazione tra generazioni e culture diverse sono tutti elementi che contribuiscono a rendere un’azienda più dinamica e innovativa.
Il cambiamento culturale riguarda anche il rapporto con l’esperienza dei lavoratori senior. Troppo spesso considerati un peso o un costo, in realtà rappresentano una risorsa preziosa. Integrare la loro conoscenza con l’energia e la visione dei più giovani può creare un equilibrio capace di generare valore duraturo. È un passaggio che richiede umiltà da parte di chi guida le imprese e la capacità di mettere da parte pregiudizi radicati.
E poi c’è la sfida dell’intelligenza artificiale. L’AI sta trasformando i processi produttivi e organizzativi, ma non può sostituire ciò che chiamiamo intelligenza reale: la capacità di ascoltare, comprendere, innovare con sensibilità umana. Le aziende che sapranno coniugare tecnologia e umanità saranno quelle che riusciranno a distinguersi, perché i lavoratori non vogliono sentirsi ingranaggi sostituibili, ma parte di un sistema in evoluzione.
Parlare di mindset aziendale significa andare oltre i numeri e le procedure, vuol dire coltivare una cultura fondata su rispetto, fiducia e responsabilità. Solo così il lavoro può tornare ad attrarre i giovani e a trattenere i talenti, trasformandosi da necessità a opportunità condivisa.
Negli anni passati la sostenibilità è stata vista da molte aziende come un elemento accessorio: un modo per migliorare l’immagine, ottenere certificazioni o soddisfare le richieste dei consumatori più attenti. Oggi, invece, non è più una scelta facoltativa. È diventata un imperativo aziendale, una condizione necessaria per restare competitivi e attrattivi sul mercato del lavoro.
Le nuove generazioni lo dimostrano con chiarezza. Se per la Generazione X la sostenibilità era un tema marginale, per i Millennial (Generazione Y) è già un criterio che guida le decisioni professionali. La Generazione Z fa un passo in più: secondo alcune ricerche, è disposta a rinunciare a uno stipendio più alto pur di lavorare in un’azienda che rispecchi i propri valori e che abbia un impatto positivo sul mondo.
Ma che cosa significa, concretamente, fare della sostenibilità un pilastro?
Non si tratta di creare un team “green” o di pubblicare un bilancio sociale una volta l’anno, ma di rendere la sostenibilità una pratica quotidiana, integrata nella cultura aziendale e riconoscibile nei comportamenti di tutti.
Anche le dinamiche di collaborazione offrono un’opportunità importante. Le grandi aziende possono e devono lavorare insieme alle piccole imprese, trasferendo competenze, innovazione e standard più elevati. In questo modo l’impatto della sostenibilità non resta confinato alla singola realtà, ma diventa un fattore sistemico, capace di trasformare intere filiere produttive.
Infine, non va dimenticato il valore motivazionale. Un’azienda che mette la sostenibilità al centro non solo migliora la propria reputazione, ma crea un senso di appartenenza più forte tra i collaboratori. Lavorare per un obiettivo che va oltre il profitto stimola la creatività, riduce le barriere tra reparti e favorisce la collaborazione. È un modo per unire le persone intorno a un progetto più grande, in grado di attrarre e trattenere i migliori talenti.
In un mercato globale sempre più competitivo, la sostenibilità non è più un’etichetta da esibire: è la chiave per garantire continuità, innovazione e futuro. Le aziende che non lo capiranno rischiano di restare indietro, mentre quelle che faranno di questo principio un vero imperativo potranno diventare punti di riferimento, non solo economici, ma anche sociali e culturali.
Il mercato del lavoro italiano si trova davanti a un bivio.
Da una parte, la carenza di figure qualificate, la fuga dei giovani e un modello produttivo che in molti casi non è più al passo con i tempi. Dall’altra, l’opportunità di costruire un nuovo paradigma basato sulla sostenibilità, intesa non solo come attenzione all’ambiente, ma come equilibrio tra crescita economica, benessere delle persone e inclusione sociale.
La sostenibilità è l’unica via per rendere il lavoro in Italia attrattivo, competitivo e capace di guardare al futuro.