
Per anni, nel mondo della pianificazione patrimoniale, si è diffusa una narrazione abbastanza rassicurante, ossia spostare gli asset in un Trust internazionale, magari sotto una giurisdizione anglosassone, per renderli invisibili o intoccabili.
Oggigiorno, quella narrazione è pericolosa, non solo obsoleta.
Viviamo in una fase storica di piena maturità giuridica. Infatti, i tribunali italiani non guardano più al Trust con sospetto o incomprensione. Al contrario, hanno imparato a leggerlo, a dissezionarlo e, quando serve, a colpirlo chirurgicamente.
Il “nemico” del patrimonio non è più la mancanza di strumenti, ma l’uso di schemi standardizzati che non reggono alla prova della sostanza. Un Trust istituito anni fa, se non manutenuto o se gestito con troppa disinvoltura dal Disponente, oggi è un bersaglio.
Spesso, nelle conversazioni con clienti internazionali, il Regolamento Europeo 650/2012 viene citato come la soluzione definitiva, la bussola che orienta ogni successione transfrontaliera.
È indubbio che questa normativa abbia portato un ordine necessario, permettendo di scegliere la legge applicabile alla propria successione (generalmente quella della cittadinanza) e superando la frammentazione del passato. Per chi ha conferito il proprio patrimonio in un Trust, affidarsi ciecamente a questo Regolamento rischia di essere un errore di prospettiva fatale.
C’è un dettaglio tecnico, spesso relegato alle note a margine, che in realtà costituisce il cuore del problema: il Regolamento esclude esplicitamente i Trust dal suo ambito di applicazione (art. 1, par. 2).
Questa esclusione non è una semplice dimenticanza, ma il riconoscimento di una complessità strutturale. Si crea così una pericolosa “zona grigia”, un disallineamento in cui due binari normativi corrono paralleli rischiando di entrare in collisione. Da una parte, abbiamo la legge regolatrice del Trust (quasi sempre di matrice anglosassone o di giurisdizioni Trust-friendly come Jersey, Guernsey o Nuova Zelanda), che governa il funzionamento, i poteri del Trustee e la destinazione dei beni. Dall’altra, corre la legge della successione (nel nostro caso, quella italiana), che governa i diritti degli eredi e la trasmissione del patrimonio.
Il vero nodo critico emerge quando queste due forze si scontrano sul terreno dei principi di ordine pubblico.
L’ordinamento italiano considera la tutela dei legittimari (coniuge e figli) come un pilastro di ordine pubblico interno. Questo significa che nessuna legge straniera, nemmeno quella scelta legittimamente per regolare il Trust, può derogare ai diritti di riserva garantiti dalla legge italiana.
In termini pratici, questo crea un paradosso rischioso: il Trust potrebbe essere perfettamente valido secondo la legge di Jersey o delle Bahamas, formalmente ineccepibile nella sua struttura, eppure risultare “permeabile” in Italia. Il giudice italiano, infatti, non annullerà il Trust in quanto tale, ma ne neutralizzerà gli effetti nella misura in cui questi ledono la legittima.
La sfida, dunque, non è logistica (“Quale legge applicare?”), ma di alta strategia difensiva: come far convivere la flessibilità del Common Law (che permette ampia libertà di disporre) con la rigidità del Civil Law (che impone quote fisse agli eredi), evitando che l’uno disinneschi l’altro?
Affidarsi al solo Regolamento UE lascia il fianco scoperto; quindi, serve una costruzione giuridica che anticipi e risolva questo conflitto prima che arrivi in tribunale.
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Per affrontare correttamente la pianificazione, dobbiamo partire da un dato di fatto: la giurisprudenza italiana recente ha raggiunto una maggiore maturità, mostrando un approccio molto più articolato e consapevole rispetto al passato.
Oggi i tribunali non hanno difficoltà a riconoscere la validità dei Trust stranieri e ne rispettano la funzione di pianificazione patrimoniale, considerandoli strumenti utili e legittimi nel contesto giuridico attuale.
Tuttavia, allo stesso tempo, i giudici garantiscono una tutela rigorosa dei legittimari, assicurando che i diritti delle parti coinvolte non vengano mai lesi.
Questo equilibrio tra apertura internazionale e tutela interna rappresenta un importante passo avanti, ma richiede una crescente attenzione verso la corretta applicazione delle normative nazionali in relazione ai Trust di origine estera.
Quindi, ciò che conta davvero non è la veste formale del Trust, ma il suo effetto sostanziale.
I giudici italiani, infatti, effettuano quella che tecnicamente si definisce la “ricostruzione economica dell’atto di conferimento”. Se il Disponente utilizza il Trust per privare i legittimari della loro quota di riserva, il conferimento può essere aggredito. Lo strumento, pur rimanendo valido dal punto di vista della legge straniera, risulta esposto all’azione di riduzione prevista dal nostro Codice Civile.
Per rendere tangibile questo rischio, immaginiamo un Disponente italiano, residente all’estero, che conferisce l’intero patrimonio (inclusi i beni situati in Italia) in un Trust. Sulla carta potrebbe sembrare una mossa risolutiva. Ciononostante, se in vita egli mantiene un controllo eccessivo sul Trust, ad esempio attraverso poteri di revoca o di gestione particolarmente ampi e alla sua morte il patrimonio residuo non basta a soddisfare la quota spettante ai figli (legittimari) secondo la legge italiana applicabile, lo strumento scelto per la protezione patrimoniale non è affatto inattaccabile.
Questo significa che, nonostante la normativa straniera che disciplina il Trust lo permetta, la legge italiana interviene per tutelare i diritti successori. In questo caso, gli eredi possono agire legalmente dimostrando che l’atto di conferimento era, in sostanza, una donazione indiretta che ledeva i loro diritti. Tale azione può portare a una revisione o addirittura all’annullamento degli effetti del Trust, qualora venga accertato che la volontà del Disponente fosse diretta a escludere artificialmente gli eredi legittimi. Il risultato finale è il crollo della pianificazione: il patrimonio che si credeva “protetto” può essere aggredito, indipendentemente dalla legge straniera che regola il Trust, garantendo così il ripristino delle quote di legittima secondo il diritto italiano.
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Analizzando le sentenze, emerge che molti Trust vengono contestati non per la loro natura giuridica intrinseca, ma per il modo in cui sono stati gestiti o strutturati nella quotidianità.
Il rischio maggiore nasce quando il Disponente (la persona che istituisce il Trust) non riesce a compiere quel passo che permette di separarsi sufficientemente dai beni conferiti.
Uno degli scogli più insidiosi è quello di mantenere un controllo eccessivo.
Spesso l’imprenditore, abituato al comando, fatica a cedere le redini, inserendo clausole che gli garantiscono poteri di revoca, mantenendo un’ampia discrezionalità operativa o continuando a gestire i beni unilateralmente. Questo comportamento apre la porta alle contestazioni, perché dimostra che il Trust non è altro che un prolungamento della sua volontà personale. La soluzione strategica per un Trust solido è diametralmente opposta: bisogna limitare i poteri del Disponente. È necessario rendere il Trust veramente autonomo, riducendo i margini di manovra e controllo della parte istituente.
Un secondo punto critico riguarda la figura del Trust Autodichiarato.
Se il Disponente nomina sé stesso come Trustee, ci troviamo di fronte a una struttura intrinsecamente vulnerabile.
In questa configurazione manca quella separazione “fisica” e funzionale richiesta dalla legge affinché il Trust sia opponibile ai terzi. Per blindare il patrimonio, la strada maestra è assicurare una separazione chiara, quindi una netta distinzione, tra il ruolo del Disponente e la gestione affidata al Trustee, eliminando ogni ambiguità sulla titolarità dei beni.
Infine, l’errore forse più grave è quello concettuale: la volontà elusiva.
Se il Trust viene strutturato con l’unico, evidente scopo di aggirare la legittima, diventa fragile.
Al contrario, la protezione si ottiene quando lo strumento serve ad armonizzare gli equilibri familiari. La risposta tecnica a questo rischio è il coordinamento documentale: è indispensabile coordinare in modo chiaro e integrato il testamento, il Trust e gli eventuali patti successori.
Solo rendendo manifesta una volontà di pianificazione complessiva e non di esclusione, si disinnescano le pretese.
La vera soluzione non risiede in una formula magica, ma in una progettazione accurata.
Un Trust solido deve essere perfettamente integrato nel sistema successorio e non deve mai apparire come uno strumento puramente elusivo. È essenziale valutare in anticipo l’impatto sui legittimari secondo la legge successoria applicabile, prevenendo i conflitti invece di provocarli.
La pianificazione successoria internazionale non deve mai essere interpretata come un mero “gioco di incastri formali”. L’errore più comune è pensare che la strategia consista nel nascondere i beni o nel renderli tecnicamente irraggiungibili.
Al contrario, la vera maestria sta nel costruire un percorso strategico trasparente che rispetti i principi fondamentali di tutti gli ordinamenti coinvolti.
Questo processo non ammette improvvisazioni, anzi richiede una profonda e aggiornata conoscenza delle normative giuridiche dei diversi Paesi interessati, unita a un’attenta valutazione degli aspetti fiscali e legali. Non si tratta solo di applicare una legge, ma di far dialogare sistemi spesso opposti (come il Common Law e il Civil Law).
L’opacità è l’anticamera del contenzioso.
Solo attraverso un approccio ponderato e integrato è possibile evitare controversie future tra gli eredi e tutelare realmente gli interessi di tutte le parti coinvolte. In quest’ottica, un Trust ben progettato diventa uno strumento straordinario per garantire protezione, continuità generazionale e trasparenza del patrimonio.
Investire nella pianificazione significa, dunque, costruire un progetto successorio coerente, un’architettura capace di durare nel tempo e di resistere a ogni contestazione, presente e futura.
Questo richiede un lavoro preliminare di ascolto e analisi. È necessario mappare le esigenze e le volontà profonde di tutte le parti coinvolte per garantire una corretta distribuzione dei beni.
Ma non basta guardare all’oggi. È fondamentale prevedere eventuali cambiamenti normativi o situazioni impreviste (divorzi, crisi economiche, mobilità dei discendenti) che potrebbero influenzare la validità del progetto.
Solo attraverso una pianificazione così accurata e lungimirante si può assicurare una trasmissione patrimoniale serena e senza complicazioni future.
