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Qual è l’impatto economico della crisi climatica in Italia e in Europa?

9 minuti di lettura
Qual è l’impatto economico della crisi climatica in Italia e in Europa?

La crisi climatica ha smesso di essere una variabile esogena per diventare una determinante endogena della stabilità economica europea. Le recenti analisi diffuse dalla Banca Centrale Europea, supportate dagli interventi di Frank Elderson, membro del comitato esecutivo, delineano scenari di rischio fisico che impongono una revisione profonda della pianificazione strategica, sia a livello istituzionale che aziendale.

Non parliamo più di proiezioni teoriche a lungo termine, ma di una traiettoria che investe il prossimo quinquennio. Secondo Elderson, in assenza di interventi strutturali di protezione del clima e dell’ambiente, l’impatto combinato di eventi estremi, quali inondazioni, siccità, colpi di calore e incendi boschivi, potrebbe erodere fino al 5% della produzione dell’Eurozona entro il 2030.

Per comprendere il peso di questa cifra e le relative conseguenze, la BCE utilizza parole inequivocabili: si tratterebbe di “uno shock sistemico paragonabile alla grande crisi finanziaria del 2008”.

Se anni fa il trigger fu il collasso del mercato dei subprime, oggi il catalizzatore è identificato nella vulnerabilità fisica degli asset e nella fragilità delle catene del valore.

Elderson ha citato uno studio e un’analisi del blog della BCE. Partendo dai danni provocati dalle catastrofi naturali questa estate nell’Eurozona, le proiezioni sono allarmanti. “Una serie di rischi di transizione e fisici collegati a eventi climatici estremi, come colpi di calore, siccità e incendi nel 2026, seguiti da una combinazione di inondazioni e tempeste nel 2027, avrebbero un effetto combinato, causando un calo del PIL annuale dell’Eurozona, fino al 5% nel 2030”.

 

Per i professionisti dell’ESG e per i risk manager, questo scenario trasforma radicalmente l’approccio alla sostenibilità.

 

L’obiettivo non è più soltanto mitigare l’impatto ambientale dell’azienda (inside-out), ma valutare rigorosamente come il collasso degli ecosistemi e l’estremizzazione climatica minaccino la solvibilità dei debitori, la continuità operativa e il valore degli attivi nel breve-medio periodo (outside-in).

 

Qual è l’effetto della crisi climatica sul business?

Oltre la distruzione degli asset fisici

L’analisi proposta da Frank Elderson non si limita a una generica previsione di rischio, ma si fonda su una modellizzazione precisa degli shock che potrebbero colpire l’Eurozona. Per un’organizzazione, è fondamentale distinguere tra costi diretti e indiretti per comprendere la reale esposizione al rischio.

I costi diretti sono quelli più evidenti e immediati: la distruzione fisica di strade, ponti, siti produttivi, la perdita dei raccolti e del bestiame, fino al tragico computo delle vite umane.

Basti pensare alle oltre 2.300 vittime registrate nelle città europee durante le ondate di calore tra giugno e luglio 2025.

Tuttavia, la vera erosione di valore avviene attraverso i costi indiretti. La perdita di una fabbrica non si esaurisce nel valore contabile dell’immobile o dei macchinari; il danno reale risiede nell’interruzione del flusso di produzione che persiste fino alla completa ricostruzione del sito.

Questo “fermo biologico” dell’attività produttiva innesca una reazione a catena: la diminuzione della produzione e la deviazione massiccia di capitali verso la ricostruzione sottraggono risorse agli investimenti in innovazione e colpiscono trasversalmente altri settori, che soffrono di una contrazione della domanda e di un generale rallentamento dell'attività economica.

 

Questa dinamica trasforma un evento meteorologico locale in un problema di stabilità macroeconomica.

 

Qual è l’impatto climatico in Italia e in Europa?

Dai rischi geografici all’aumento dei prezzi

Questo scenario di rischio non si distribuisce in modo uniforme sul continente, ma segue una geografia delle vulnerabilità che richiede strategie di adattamento differenziate. Mentre i Paesi del Sud Europa, come Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, sono maggiormente esposti a ondate di calore e siccità, i Paesi del Nord, come Danimarca, Svezia e Germania, devono far fronte a un incremento significativo delle inondazioni. Tale divergenza climatica si riflette immediatamente sui prezzi dei prodotti alimentari, agendo come una tassa regressiva che colpisce in particolare le fasce di popolazione e le regioni a basso reddito.

Il quadro si complica ulteriormente se si considera l’impatto fiscale.

In nazioni già caratterizzate da un elevato debito pubblico, il costo degli interventi di emergenza e della ricostruzione rischia di innescare una pressione insostenibile sui conti dello Stato. La perdita di servizi ecosistemici essenziali, spesso ignorata nei bilanci tradizionali, aggrava la situazione riducendo la resilienza naturale dei territori. In questo contesto, la gestione del rischio climatico nei bilanci bancari, sollecitata con forza dalla BCE, non è più un esercizio di trasparenza, ma una necessità per garantire la stabilità del sistema creditizio a fronte di asset che rischiano una rapida svalutazione.

 

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Quali sono le conseguenze del riscaldamento globale?

Se i dati della BCE delineano un perimetro di rischio economico quantificabile, la comunità scientifica sposta l’attenzione su una minaccia ancora più insidiosa e complessa da integrare nei modelli previsionali: i cosiddetti tipping points, o punti di non ritorno. Si tratta di soglie critiche oltre le quali un ecosistema essenziale per la stabilità del clima subisce cambiamenti bruschi, autoalimentati e spesso irreversibili. Come sottolineato da Tim Lenton, docente di Scienze del sistema terrestre all’Università di Exeter, il superamento di questi limiti trasforma il collasso ambientale in un sistema autopropulsivo, guidato da “feedback amplificati” che rendono vano ogni tentativo di inversione di tendenza.

Il problema centrale per i decisori politici e per le aziende risiede nell’incertezza scientifica circa l’esatto livello di riscaldamento necessario per innescare un punto di non ritorno specifico.

Il clima terrestre è un sistema di processi interconnessi dove le dinamiche di fusione della calotta glaciale o gli effetti degli incendi boschivi seguono logiche non lineari. Questa situazione introduce il rischio di un “effetto domino globale”: la fusione dei ghiacci in Groenlandia rilascia enormi quantità di acqua dolce negli oceani, un fenomeno che può rallentare l’AtlanticMeridional Overturning Circulation (AMOC), la circolazione oceanica che regola le temperature europee. Tale rallentamento ridurrebbe ulteriormente le precipitazioni sull’Amazzonia, accelerando la trasformazione della foresta pluviale in savana e rilasciando in atmosfera decine di miliardi di tonnellate di anidride carbonica, in un circolo vizioso che riscalderebbe ulteriormente il pianeta.

 

Il rischio sistemico e la reazione dei mercati

Nonostante la gravità di quanto avviene, la risposta politica globale appare ancora inadeguata.

Ad eccezione dei Paesi del Nord Europa, la maggior parte dei governi non sta affrontando il rischio del crollo delle calotte glaciali con la stessa serietà riservata ad altre minacce ad alto impatto. Ciononostante, l’interesse per questi fenomeni sta crescendo esponenzialmente al di fuori dei laboratori scientifici: i servizi di emergenza, le compagnie di assicurazione e i grandi fondi pensione osservano con crescente preoccupazione questi equilibri instabili, consapevoli che il superamento di un punto di non ritorno renderebbe gli asset sottostanti difficilmente assicurabili o gestibili.

Le aree di maggiore criticità includono oggi la calotta glaciale dell’Antartide occidentale (dove la perdita di massa si sta già autoalimentando, minacciando un innalzamento del livello dei mari di circa 1,2 metri), e il permafrost, il cui scioglimento sta rilasciando ingenti quantità di metano, un gas serra con un potenziale di riscaldamento molto superiore alla CO2.

A questi si aggiunge lo sbiancamento senza precedenti delle barriere coralline, un evento che mette a rischio il sostentamento di centinaia di milioni di persone e l’intera catena del valore legata all’economia blu. La centralità del tema è stata ribadita anche durante la preparazione della Cop30 in Brasile, dove l’attenzione si è focalizzata sulla protezione dell’Amazzonia, non solo come polmone verde, ma come pilastro fondamentale della stabilità climatica globale.

 

Il caso AMOC e il paradosso climatico europeo

Le evidenze più recenti, pubblicate su Environmental Research Letters, suggeriscono che il rischio di un collasso dell’AMOC sia stato fino ad ora ampiamente sottovalutato. Se prima la probabilità di un arresto della circolazione atlantica era stimata sotto il 10%, i nuovi modelli indicano che, anche in scenari a basse emissioni, la circolazione rallenterà drasticamente entro il 2100, con il rischio di un punto di rottura già entro il 2050.

Per l’Europa, questo scenario rappresenterebbe un mutamento epocale. In un mondo che si scalda, il collasso dell’AMOC farebbe precipitare il continente in un clima caratterizzato da inverni estremi, con temperature che potrebbero scendere a -20°C a Bruxelles e -50°C a Oslo, e siccità estive devastanti. Un evento di tale portata spazzerebbe via oltre metà delle aree destinate alle colture di base nel mondo e costringerebbe a una riscrittura totale delle nostre infrastrutture energetiche e produttive. Gli scienziati sono categorici sulla necessità di adoperarsi per evitare il verificarsi di questa possibilità.  

 

La gestione ESG non può più limitarsi a una rendicontazione statica o a una mitigazione graduale.

 

La complessità e la velocità dei feedback climatici richiedono una visione strategica basata sulla resilienza e sullo stress testing di scenari estremi.

Per i professionisti e le imprese, integrare queste variabili nei modelli di business non è solo un atto di responsabilità verso l’ambiente, ma l’unico modo per garantire la solvibilità e la sopravvivenza economica in un decennio che si preannuncia come il più sfidante della storia moderna.

 

La stabilità del nostro sistema finanziario dipende oggi, più che mai, dalla capacità di comprendere e rispettare i limiti fisici del pianeta che lo ospita.

 

L’allarme lanciato dalla BCE e le nuove evidenze scientifiche sui punti di non ritorno segnano il tramonto dell’epoca della sostenibilità intesa come mera rendicontazione o esercizio di conformità. I dati che abbiamo analizzato ci dicono chiaramente che la stabilità del nostro sistema economico è ora legata a doppio filo alla stabilità degli equilibri biosferici. In un contesto in cui uno shock climatico può assumere le proporzioni della crisi finanziaria del 2008, la gestione del rischio ESG si sposta dal perimetro della responsabilità sociale a quello, ben più critico, della sopravvivenza strategica e della solvibilità finanziaria.

Per i professionisti e i decisori aziendali, questo significa che l’integrazione dei rischi climatici nei modelli di business è un imperativo di governance. Non è più sufficiente misurare l’impatto dell’azienda sull’ambiente; la vera sfida oggi risiede nell’analisi della doppia materialità, ovvero nel comprendere come il collasso di sistemi complessi come l’AMOC o la foresta amazzonica possa alterare drasticamente la supply chain, la disponibilità di risorse e il valore degli asset nel medio periodo. Dobbiamo passare da una logica di mitigazione lineare a una di adattamento sistemico, utilizzando lo stress testing climatico non come un adempimento burocratico, ma come una bussola per navigare un decennio di incertezza radicale.

La capacità di anticipare l’impatto dei tipping points e di rispondere alla sollecitazione della Banca Centrale Europea definirà chi sarà in grado di generare valore nel tempo e chi resterà schiacciato dall’inerzia.

 

La transizione non è più solo una questione di emissioni di CO2, ma di resilienza strutturale.

 

 

 

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