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Welfare aziendale e Wellbeing: oltre le politiche green

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Welfare aziendale e Wellbeing: oltre le politiche green

Le aziende contemporanee hanno un ruolo determinante nella promozione dello sviluppo sostenibile, agendo come attori protagonisti di un cambiamento che va ben oltre il profitto immediato.

Se è vero, come lo è, che adottare pratiche green contribuisce alla protezione dell’ambiente e genera vantaggi economici, è altrettanto vero che la sostenibilità non può limitarsi alla sola sfera ecologica.

Per le imprese moderne, essere sostenibili significa integrare l’efficienza energetica e la riduzione delle emissioni con una profonda responsabilità sociale verso il proprio capitale umano.

 

Non esiste vera sostenibilità senza benessere delle persone. Un ambiente di lavoro sano è la precondizione per un’azienda produttiva e resiliente.

 

In questo contesto rientra anche il Welfare aziendale. Lungi dall’essere in antitesi con il tradizionale Welfare State, il Welfare d’impresa ne rappresenta oggi un’evoluzione complementare e necessaria.

 

Welfare aziendale e Welfare State: un’alleanza strategica per la sostenibilità sociale

Per comprendere la reale portata del Welfare nelle organizzazioni moderne, è necessario superare la definizione manualistica e analizzare il contesto socioeconomico in cui le aziende operano.

Quando si parla di Welfare aziendale, non si fa riferimento semplicemente a un elenco di benefit o a un paniere di servizi offerti ai dipendenti, ma parliamo di una leva gestionale complessa che ridisegna il patto tra impresa e lavoratore.

In un’epoca segnata dalla trasformazione del mercato del lavoro, il Welfare aziendale è l’insieme organico di iniziative, beni e servizi che il datore di lavoro mette a disposizione per incrementare il benessere del personale e delle loro famiglie.

Non si tratta di una forma di retribuzione monetaria diretta, ma di una componente fondamentale del cosiddetto “total reward”, ossia quel pacchetto retributivo globale che va oltre lo stipendio netto e tocca la qualità della vita, il potere d’acquisto reale e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (work-life balance).

Queste iniziative, siano esse frutto della contrattazione sindacale o di una scelta volontaria e unilaterale dell’imprenditore, rappresentano la risposta concreta alla domanda di sicurezza e flessibilità che la retribuzione tradizionale, da sola, non riesce più a soddisfare pienamente.

 

Oltre il conflitto: il dialogo tra pubblico e privato

Spesso si cade nell’errore di considerare il Welfare aziendale come un antagonista del Welfare State o, peggio, come un segnale del disimpegno dello Stato. La realtà è molto più sfumata e costruttiva; i due sistemi non sono in competizione, ma operano secondo logiche di profonda complementarità e necessaria integrazione.

Il Welfare aziendale, pilastro delle democrazie moderne, agisce a un livello macro-sociale. Laddove lo Stato offre standardizzazione e universalità, l’azienda risponde con personalizzazione e velocità.

 

L’efficienza fiscale e la centralità dell’essere umano

L'integrazione tra questi due mondi è resa possibile e vantaggiosa da alcuni fattori determinanti che ogni professionista della sostenibilità deve conoscere a fondo.

Il primo fattore è di natura economica e fiscale.

I piani di Welfare aziendale godono di un trattamento fiscale privilegiato (normato in Italia dagli artt. 51 e 100 del TUIR) che li rende estremamente efficienti. Mentre un aumento di stipendio lordo viene eroso dalla tassazione e dalla contribuzione, riducendo significativamente il netto in busta paga, il valore dei servizi di Welfare arriva “integro” al dipendente.

Questo meccanismo di abbattimento del cuneo fiscale incentiva le imprese a investire nel benessere, trasformando un costo aziendale in un valore percepito molto più alto per il lavoratore. È un sistema win-win che lo Stato incoraggia proprio per stimolare il settore privato a farsi carico di bisogni sociali crescenti.

Il secondo fattore riguarda la capacità di adattamento.

Il Welfare State, per sua natura, fatica a seguire in tempo reale i mutamenti della società. Al contrario, un piano di Welfare aziendale può essere disegnato e rimodellato velocemente sulle specifiche esigenze della popolazione aziendale.
Un’azienda con un’età media bassa potrà concentrare le risorse su formazione, mobilità sostenibile e sport; un’azienda con un’età media più alta potrà focalizzarsi sulla previdenza integrativa o sull’assistenza ai familiari anziani (caregiving). Questa capacità di profilazione permette di offrire risposte puntuali a bisogni reali, cosa che una politica pubblica generalista non potrà mai garantire con la stessa precisione.

 

Il Welfare aziendale rappresenta l’evoluzione moderna della responsabilità sociale.

 

L’impresa smette di essere solo un luogo di produzione e diventa un attore sociale che si prende cura della persona a 360 gradi. Si passa dalla logica dell’assistenzialismo a quella dell’abilitazione: l’azienda fornisce gli strumenti affinché il dipendente possa gestire meglio la propria vita, riducendo stress e preoccupazioni.

 

Integrare il Welfare pubblico con quello privato è la chiave per costruire un modello di sviluppo sostenibile, capace di proteggere il capitale umano dalle incertezze del futuro.

 

Le radici del benessere

Evoluzione storica e modelli internazionali di Welfare State

Per una professionista della sostenibilità che intende operare con consapevolezza nel campo sociale, è indispensabile possedere una visione chiara di cosa sia il Welfare State, di come sia nato e di come si differenzi nel panorama globale.

Il concetto di “Stato sociale” non è un monolite immutabile, ma il frutto di una complessa sedimentazione storica che ha plasmato l’identità delle democrazie occidentali, influenzando direttamente il modo in cui oggi concepiamo la protezione dell’individuo.

In termini generali, il Welfare State rappresenta l’assunzione di responsabilità da parte dello Stato nel garantire il benessere fondamentale dei propri cittadini. Non si tratta semplicemente di erogare sussidi, ma di un progetto politico ed economico volto a ridurre le disuguaglianze, promuovere la giustizia sociale e fornire una rete di sicurezza contro i grandi rischi dell’esistenza, come la malattia, la vecchiaia o la perdita del lavoro.

Questo sistema si regge su un patto sociale preciso, finanziato attraverso la fiscalità pubblica o i contributi lavorativi, per sostenere servizi essenziali.

 

Da Bismarck a Beveridge

Sebbene tendiamo a collocare la nascita del moderno Stato sociale nel periodo di ricostruzione successivo alla Seconda Guerra Mondiale, le sue fondamenta teoriche e pratiche sono molto più antiche e risalgono alla fine del XIX secolo. È affascinante notare come l’evoluzione del Welfare sia stata guidata da due filosofie distinte, che ancora oggi influenzano i sistemi nazionali.

Il primo impulso arrivò dalla Germania di Otto von Bismarck negli anni Ottanta dell’Ottocento.

Il “cancelliere di ferro” introdusse le prime forme di assicurazione sociale obbligatoria, non tanto per filantropia, quanto per garantire stabilità sociale e produttiva in un’epoca di forte industrializzazione. Il modello bismarckiano era (ed è ancora oggi, seppur in parte), di natura “occupazionale”: la protezione sociale non era un diritto universale, ma una prerogativa del lavoratore, legata indissolubilmente al versamento dei contributi.

La seconda grande rivoluzione concettuale avvenne oltre mezzo secolo dopo, nel Regno Unito, e cambiò radicalmente la prospettiva.

Nel 1942, l’economista William Beveridge redasse un rapporto che avrebbe gettato le basi del Welfare moderno. Beveridge teorizzò un sistema di sicurezza sociale “dalla culla alla tomba”, svincolato dalla condizione lavorativa e fondato sul diritto di cittadinanza. La sua visione portò, nel dopoguerra, alla creazione di sistemi universalistici finanziati dalle tasse, con l’obiettivo di garantire a tutti, indistintamente, l’accesso ai servizi essenziali. Fu la risposta delle democrazie occidentali alle devastazioni della guerra, un tentativo di costruire società più eque e stabili.

 

La geografia del Welfare

L’applicazione di queste teorie ha generato, nel corso dei decenni, sistemi nazionali profondamente diversi tra loro, ognuno dei quali riflette la cultura e le priorità politiche del proprio Paese. Analizzare queste differenze ci aiuta a capire perché il ruolo delle aziende e del Welfare privato assuma pesi diversi a seconda della latitudine.

Guardando all’Europa del Nord, Paesi come la Svezia, la Norvegia e la Finlandia hanno portato alla massima espressione il modello universalistico. Qui il Welfare State è onnipresente e generoso: lo Stato si fa carico di una vastissima gamma di servizi, dall’istruzione universitaria gratuita all’assistenza all’infanzia e agli anziani, garantendo standard elevatissimi.

 

È un sistema che richiede una pressione fiscale importante, ma che restituisce ai cittadini una protezione sociale quasi totale, riducendo al minimo la necessità di interventi privati per i bisogni primari.

 

Spostandoci nel Regno Unito, troviamo la culla del “National Health Service” (NHS), istituito nel 1948 come esempio pionieristico di sanità gratuita per tutti. Tuttavia, il modello britannico ha mantenuto un approccio più austero rispetto a quello scandinavo per quanto riguarda i sussidi economici e le pensioni.

 

È garantita una protezione di base contro la povertà, ma lascia ampio spazio all’iniziativa individuale per integrare il reddito e i servizi.

 

Nell’Europa continentale, in nazioni come la Germania e la Francia, prevale ancora l’eredità del modello assicurativo bismarckiano, seppur modernizzato. Il sistema di Welfare è solido e ben strutturato, ma fortemente imperniato sul lavoro. In Germania, ad esempio, la sanità e le pensioni sono gestite attraverso casse mutue e assicurazioni sociali alimentate dai contributi di lavoratori e datori di lavoro. In Francia, il sistema è un ibrido complesso che unisce una forte spesa pubblica per la natalità e la famiglia a meccanismi assicurativi obbligatori.

 

In questi Paesi, il legame tra azienda e protezione sociale è storicamente forte proprio per la natura contributiva del sistema.

 

Infine, un caso a sé stante è rappresentato dagli Stati Uniti, dove vige un modello di Welfare che potremmo definire “residuale”.

Oltreoceano, lo Stato interviene in misura limitata, focalizzandosi principalmente sulle fasce di popolazione più indigenti, mentre la classe media e lavoratrice affida la propria sicurezza sociale al mercato. È in questo contesto che il Welfare aziendale diventa vitale.

 

Negli USA, l’assicurazione sanitaria o il piano pensionistico sono quasi esclusivamente benefit legati al contratto di lavoro, rendendo il dipendente fortemente dipendente dalle politiche della propria azienda.

 

Questa panoramica evidenzia come non esiste una ricetta univoca per il benessere. Tuttavia, tutti questi modelli, dal più generoso al più liberale, stanno oggi affrontando sfide comuni legate alla sostenibilità finanziaria e all’invecchiamento demografico, aprendo nuovi spazi di intervento per il settore privato e per le politiche di Welfare aziendale.

 

L’ecosistema italiano: la nuova centralità dell’azienda

Analizzare la situazione italiana richiede uno sforzo interpretativo ulteriore rispetto alla media degli altri Paesi europei. Il nostro sistema di protezione sociale, pur fondato sui nobili principi costituzionali del 1948 e sull’universalismo del Servizio Sanitario Nazionale, si è storicamente retto sulla famiglia.
Per decenni, il vero ammortizzatore sociale in Italia non è stato solo lo Stato, ma la rete familiare, che si faceva carico della cura dei bambini, dell’assistenza agli anziani e del supporto ai giovani disoccupati.

Oggi, questo “modello familistico” è entrato in una profonda crisi. I cambiamenti demografici, la necessità (e il diritto) di una maggiore occupazione femminile e la disgregazione dei nuclei familiari tradizionali hanno fatto venire meno quella rete di protezione informale.

Lo Stato, stretto nella morsa del debito pubblico e di una spesa pensionistica ingente, fatica a riconvertire le proprie risorse verso servizi di cura alla persona (asili, long-term care). È in questo vuoto strutturale e sociale che il Welfare aziendale in Italia assume un significato ben più profondo della semplice erogazione di benefit.

 

Il Welfare come risposta al cuneo fiscale e alla stagnazione salariale

C’è poi una specificità tutta italiana che rende il Welfare aziendale una leva economica indispensabile: il cuneo fiscale. L’Italia ha uno dei costi del lavoro più alti d’Europa, a fronte di retribuzioni nette che faticano a crescere da trent’anni.
In questo contesto, il Welfare aziendale è diventato lo strumento più efficace per ridare potere d’acquisto ai lavoratori senza appesantire i bilanci aziendali con costi insostenibili. Grazie alle normative introdotte a partire dal 2016 (Legge di Stabilità), si è consolidato un quadro in cui i servizi di Welfare godono di una defiscalizzazione pressoché totale.

Per un’azienda italiana, erogare 1.000 euro in Welfare (ad esempio in rimborsi scolastici o assistenza sanitaria) significa trasferire 1.000 euro netti di valore al dipendente, mentre la stessa cifra erogata come aumento salariale verrebbe quasi dimezzata da tasse e contributi.

Questo meccanismo ha trasformato il Welfare da “accessorio di lusso” per le grandi multinazionali a strumento di politica retributiva essenziale anche per le realtà più piccole.

 

La sfida delle PMI

Un altro aspetto che non possiamo ignorare è la composizione del nostro tessuto produttivo, fatto per oltre il 90% da piccole e medie imprese (PMI). Se fino a qualche anno fa il Welfare era appannaggio esclusivo delle grandi corporate, oggi stiamo assistendo a una democratizzazione dello strumento.
Le PMI, pur avendo meno risorse organizzative, hanno capito che per trattenere i talenti e competere sul mercato devono offrire condizioni di lavoro migliori.

Si stanno diffondendo modelli di Welfare territoriale e reti d’impresa, dove diverse piccole aziende si aggregano per acquistare servizi di Welfare a condizioni vantaggiose, creando ecosistemi virtuosi con i fornitori di servizi locali (palestre, centri medici, asili del territorio).

Inoltre, è fondamentale sottolineare il cambio di passo nelle relazioni industriali. Il Welfare non è più solo una concessione unilaterale dell’imprenditore, ma è entrato prepotentemente nella contrattazione sindacale (Contrattazione di secondo livello).

 

Sempre più Contratti Collettivi Nazionali (CCNL) prevedono quote obbligatorie di Welfare, segno che anche le parti sociali hanno riconosciuto in questo strumento una via maestra per tutelare i diritti e il reddito dei lavoratori in un’economia che cambia.

 

Stiamo, dunque, transitando da un Welfare State stato-centrico a un sistema di sussidiarietà circolare, dove Stato, imprese e terzo settore collaborano.
Le aziende italiane non si limitano più a produrre beni o servizi, ma diventano veri e propri attori sociali. Implementare piani di flexible benefit che coprono la non-autosufficienza, il sostegno alla genitorialità o la prevenzione sanitaria significa, nel contesto italiano attuale, farsi carico di pezzi di cittadinanza che altrimenti rimarrebbero scoperti.

La sostenibilità aziendale va oltre l’essere green, per garantire che la comunità dei propri lavoratori possa prosperare nonostante le difficoltà strutturali del sistema pubblico.

 

Il Wellbeing e i nuovi equilibri

Il capitale umano è il nuovo asset strategico

Se fino ad ora abbiamo parlato di strutture economiche e normative, è giunto il momento di affrontare il vero nodo della sostenibilità aziendale: la gestione del capitale umano.

Non è retorica affermare che, in un mercato sempre più basato sui servizi e sulla conoscenza, il vero vantaggio competitivo non risiede nei macchinari, ma nella testa e nella motivazione dei collaboratori.

 

I concetti di work-life balance e Wellbeing non possono essere relegati a mere etichette per abbellire il sito web aziendale, devono diventare metriche di gestione, indicatori di performance reali quanto il fatturato.

 

 

Per decenni ha dominato un modello culturale in cui la dedizione assoluta, misurata in ore di presenza fisica, era l’unico indicatore di valore. Oggi questo paradigma è saltato.

L’iper-connessione digitale e i ritmi accelerati hanno reso i confini tra vita e ufficio sempre più labili, generando nuovi rischi.

 

Il work-life balance non è più una questione di orari (“timbrare alle 18:00”), ma di confini mentali e di sostenibilità dei carichi di lavoro.

 

Quando questo equilibrio salta, il rischio non è solo l’insoddisfazione, ma il burnout. E per un’azienda, avere personale in burnout è un disastro economico: crollo della creatività, errori operativi, aumento dei conflitti interni e, alla fine, dimissioni delle risorse migliori (great resignation).
Un’azienda sostenibile capisce che proteggere il tempo privato dei dipendenti non è una concessione, ma un modo per garantire che, quando sono al lavoro, siano lucidi, energici e focalizzati.

Parallelamente, il concetto di salute in azienda si è evoluto radicalmente. Non basta più garantire che il luogo di lavoro sia sicuro a norma di legge (D.Lgs. 81/08). Si è passati dalla Safety (sicurezza fisica) al Wellbeing (benessere globale).
Questo approccio olistico riconosce che il dipendente non è un ingranaggio che si spegne uscito dall’ufficio, ma una persona complessa la cui performance è influenzata da tre ambiti che l’azienda deve imparare a supportare:

 

  • Sfera fisica: un corpo sano lavora meglio

Oggi non si fa più solo riferimento alle mense aziendali, ma a tutte le possibilità che vi sono per intercettare i problemi prima che diventino gravi. Si tratta di un investimento diretto sulla riduzione dell’assenteismo per malattia.

 

  • Sfera mentale: fino a pochi anni fa era un tabù

Le aziende hanno compreso che lo stress cronico, l’ansia e la depressione sono i nemici silenziosi della produttività. Offrire supporto psicologico, formazione sulla gestione dello stress o, semplicemente, creare una cultura che non stigmatizza la fragilità, permette di costruire un’organizzazione resiliente e capace di reagire ai cambiamenti e alle difficoltà in modo attivo e proattivo.

 

  • Sfera sociale: lavorare meglio permette di stare bene anche con gli altri

Il benessere sociale riguarda il clima interno, la qualità delle relazioni tra i colleghi e i dirigenti. Un ambiente tossico distrugge il valore; un ambiente inclusivo, invece, genera innovazione.

 

I talenti migliori, soprattutto le nuove generazioni (Millennials e Gen Z), non scelgono più l’azienda solo in base allo stipendio, ma valutano attentamente la qualità della vita che quell’azienda promette.

“Mi permetterete di andare a prendere i figli a scuola?”, “C’è un clima sereno?” sono alcune delle domande che definiscono l’employer branding, ovvero la reputazione dell’azienda come datore di lavoro.

 

Qual è il futuro?

La centralità della persona non è solo una teoria affascinante, ma una realtà confermata dalle più recenti analisi di settore che tracciano la rotta per le imprese del domani.

Come evidenziato dal 7° Rapporto Censis-Eudaimon, il futuro del Welfare aziendale si sta orientando decisamente verso il contributo attivo al benessere psicofisico dei lavoratori.

L’indagine condotta restituisce la fotografia di un Welfare che evolve: non più una semplice erogazione statica di benefit, ma un approccio dinamico, fatto di servizi utili a risolvere le criticità concrete che rendono le vite moderne concitate e pesanti.

 

L’obiettivo delle nuove politiche aziendali è chiaro: liberare tempo e risorse mentali, consentendo alle persone di avere orari più flessibili e una migliore qualità della vita.

 

Compresa la teoria, la domanda che ogni management deve porsi è come tradurre questa visione in operatività quotidiana. La risposta non risiede in una formula magica preconfezionata, ma nella capacità di far permeare questo approccio olistico nel modus operandi dell’azienda.
Per stimolare il benessere organizzativo, le imprese più lungimiranti stanno abbandonando le decisioni calate dall’alto per abbracciare la cultura dell’ascolto. Strumenti come i sondaggi di clima e il feedback ricorrente sono diventati essenziali per comprendere le reali esigenze dei dipendenti e aggiornare tempestivamente l'offerta dei servizi.

In questo processo, la tecnologia gioca un ruolo abilitante fondamentale, ma da sola non basta, se manca il fattore umano. È qui che entrano in gioco figure come i Wellbeing Ambassador, dipendenti che agiscono come punti di riferimento interni per promuovere le iniziative e diffondere una cultura della salute, supportati da sistemi di incentivazione che premiano la partecipazione attiva ai programmi di prevenzione e benessere.

 

Come sta cambiando il mondo del lavoro?

L’urgenza di adottare queste strategie è dettata da un cambiamento epocale negli equilibri del mercato del lavoro, emerso durante la 2° Assemblea dei Commercialisti del lavoro tenutasi il 6 e 7 novembre 2024 ai Giardini Naxos (ME).

 

Dal confronto tra i professionisti è scaturito un concetto dirimente per il futuro delle imprese: la capacità di rimanere sul mercato dipenderà sempre più dalla qualità dell’offerta Welfare.

 

Le aziende capaci di offrire un ecosistema di protezione e benessere superiore saranno quelle che potranno contare sui migliori talenti, garantendosi così la sopravvivenza e la crescita.

Questa dinamica conferma, nei fatti, la teoria dello “shared value” (valore condiviso) di Michael Porter, pioniere della sostenibilità strategica. Porter sosteneva che non esiste alcun algoritmo economico in grado di dimostrare che trattare male i lavoratori generi più guadagno nel lungo termine. Al contrario, il profitto reale e duraturo nasce solo quando il successo economico dell'azienda va di pari passo con il progresso sociale delle persone che la compongono.

 

Solo attraverso la valorizzazione della persona in tutte le sue dimensioni (fisica, mentale e sociale) è possibile costruire modelli di sviluppo realmente sostenibili, capaci di coniugare la necessaria crescita economica con la coesione sociale e il rispetto per l’ambiente.

 

 

Foto del profilo di Piero di Bello
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