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Oltre la donazione: le liberalità indirette

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Oltre la donazione: le liberalità indirette

La gestione del patrimonio e la pianificazione del passaggio generazionale rappresentano processi complessi, in cui la scelta degli strumenti giuridici adeguati determina il successo dell’intera strategia. Se la donazione diretta, formalizzata tramite atto pubblico, costituisce l’istituto più noto per trasferire ricchezza a titolo di liberalità, esiste un territorio ben più vasto e sfumato, ossia quello delle liberalità indirette.

Questi atti, pur non avendo la forma del contratto di donazione, ne producono il medesimo effetto sostanziale, celandosi spesso dietro operazioni apparentemente ordinarie come un bonifico bancario, l’acquisto di un immobile per un figlio o la sottoscrizione di una polizza vita. Comprendere la loro natura giuridica è una necessità imprescindibile per prevenire implicazioni fiscali e successorie di notevole portata.

 

La distinzione tra donazione diretta e indiretta

Per comprendere appieno il perimetro delle liberalità indirette, è necessario partire dalla loro contrapposizione concettuale con la donazione “tipica”, disciplinata dall’art. 769 del Codice Civile. Quest’ultima è definita come il contratto con il quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un’obbligazione. La sua validità è subordinata a un rigido requisito formale: l’atto pubblico redatto da un notaio alla presenza di due testimoni, per evitare che sia nullo.  

La liberalità indiretta, al contrario, rappresenta un negozio a causa complessa. Essa non si realizza attraverso il contratto di donazione, ma mediante l’utilizzo di un diverso atto giuridico, tipicamente oneroso, che viene piegato a uno scopo ulteriore e prevalente di liberalità.

Quindi, si utilizza un negozio-mezzo (come una compravendita, una remissione di debito o un contratto a favore di un terzo) per conseguire il negozio-fine, ossia l’arricchimento del Beneficiario senza corrispettivo.

La distinzione fondamentale, dunque, non risiede nell’intento (lo animus donandi, comune a entrambe le figure), né nel risultato (l’arricchimento del Donatario), bensì nello strumento giuridico adoperato. Di conseguenza, mentre la donazione diretta segue le regole formali che le sono proprie, la liberalità indiretta è soggetta unicamente alle norme di forma previste per l’atto effettivamente posto in essere. Questa caratteristica, se da un lato garantisce una notevole agilità operativa, dall’altro impone un’analisi sostanziale dell’operazione per farne emergere la reale natura liberale, con tutte le implicazioni che ne derivano.

 

Italia: fattispecie comuni e applicazioni pratiche

I principi sin qui delineati trovano la loro più chiara espressione nella pratica quotidiana della gestione patrimoniale, dove le liberalità indirette si manifestano in una pluralità di operazioni.

L’esempio più emblematico, forse più diffuso, è senza dubbio l’intestazione di beni a nome altrui. Si pensi al caso classico del genitore che fornisce la provvista economica per l’acquisto di un immobile, il quale viene però contrattualmente intestato al figlio. In questo schema, la compravendita agisce come strumento formale, perfettamente valido ed efficace, ma il pagamento del prezzo da parte di un soggetto terzo rispetto all’acquirente integra la sostanza di un arricchimento liberale, realizzando così una donazione indiretta del bene.

Un terreno altrettanto fertile, spesso al centro di complesse valutazioni giurisprudenziali, è quello delle operazioni bancarie. Il trasferimento di somme ingenti tramite bonifico, privo di una causa onerosa giustificativa, costituisce un’operazione di grande delicatezza. Questa fattispecie ha generato un acceso dibattito, che ha visto la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (sentenza n. 18725/2017) qualificare tali atti come donazioni dirette, quindi nulle se prive di atto pubblico. Tuttavia, orientamenti più recenti (sentenza della Cassazione n. 7442/2024) hanno mostrato un’apertura a ricondurle nell’alveo delle donazioni indirette, salvaguardandone la validità civilistica ma confermandone pienamente la natura di atto liberale, con tutte le conseguenze fiscali e successorie del caso. Non meno rilevante è l’ipotesi della cointestazione di rapporti finanziari: qualora la provvista derivi da uno solo dei titolari, la giurisprudenza presume una donazione indiretta a favore dell’altro, avente ad oggetto la metà delle somme versate. Si tratta, beninteso, di una presunzione iuris tantum, che ammette la prova contraria circa la reale intenzione delle parti.

Oltre a questi atti, che possono nascere da esigenze immediate, le liberalità indirette sono lo strumento d’elezione anche per strategie di pianificazione patrimoniale più complesse e strutturate. È questo il caso della designazione di un terzo quale beneficiario di una polizza vita, un atto che, pur essendo inter vivos, produce i suoi effetti al momento del decesso dell’assicurato, arricchendo il patrimonio del beneficiario in modo del tutto analogo a una disposizione testamentaria. Ma l’esempio paradigmatico in questo ambito è certamente rappresentato dal Trust, attraverso il quale un Disponente (settlor) realizza un trasferimento di ricchezza programmato e articolato a favore dei Beneficiari, utilizzando un negozio giuridico distinto e più complesso del semplice contratto di donazione.

La corretta qualificazione di un atto come liberalità indiretta non è un mero esercizio teorico, ma il presupposto per comprenderne le profonde conseguenze su due piani distinti, seppur interconnessi: quello successorio e quello fiscale. Questi due ambiti, governati da logiche non sempre coincidenti, richiedono un’analisi separata e attenta, poiché un’operazione valida e stabile sotto un profilo potrebbe rivelarsi problematica sotto l’altro.

 

Il profilo successorio: la tutela dei legittimari

Sotto il profilo del diritto successorio, il legislatore adotta un approccio di piena equiparazione sostanziale. Le liberalità indirette sono considerate alla stregua di quelle dirette e, pertanto, soggette ai medesimi istituti posti a tutela degli eredi legittimari (coniuge, figli e, in loro assenza, ascendenti).

Il primo di tali istituti è la collazione (art. 737 c.c.), in virtù della quale i figli, i loro discendenti e il coniuge del defunto devono “conferire” alla massa ereditaria il valore di quanto ricevuto in vita dal de cuius a titolo di donazione, salvo che ne siano stati espressamente dispensati. Questo meccanismo mira a preservare l’equilibrio tra i coeredi, presumendo che ogni liberalità costituisca un anticipo sulla futura successione.

Il secondo, e ancor più incisivo, è l’azione di riduzione. Attraverso questo strumento, il legittimario la cui quota di riserva sia stata lesa può rendere inefficaci le disposizioni testamentarie e le donazioni (dirette e indirette) effettuate dal defunto, a partire dall’ultima e risalendo a quelle precedenti, fino a reintegrare la propria quota intangibile. L’implicazione è piuttosto chiara: qualsiasi liberalità indiretta, anche se risalente nel tempo, può essere oggetto di future contestazioni da parte degli altri eredi, minando la stabilità degli assetti patrimoniali definiti in vita.

 

Il profilo fiscale: l’autonomia dell’imposizione

Se sul piano civilistico la validità dell’atto è un prerequisito, su quello fiscale il principio cardine è differente e autonomo. Il presupposto dell’imposta sulle successioni e donazioni (D.Lgs. 346/1990) è l’arricchimento patrimoniale ottenuto a titolo gratuito, indipendentemente dalla forma giuridica utilizzata o dalla validità civilistica dell’atto stesso.

Ciò significa che l’Amministrazione Finanziaria può legittimamente assoggettare a tassazione un’operazione qualificabile come liberalità indiretta anche qualora il negozio-mezzo fosse civilisticamente nullo, come nel caso di un bonifico di rilevante importo privo della forma solenne. Per il Fisco, rileva la sostanza economica del trasferimento di ricchezza. La mancata registrazione volontaria di tali liberalità, pertanto, non solo non le sottrae all’imposizione, ma espone il contribuente al rischio di un futuro accertamento, con l’applicazione di sanzioni e interessi e con la possibile perdita dei benefici legati alle franchigie applicabili al momento dell’operazione.

 

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Ambito internazionale: la territorialità dell’imposta con Disponente estero

La crescente globalizzazione dei patrimoni introduce un ulteriore livello di complessità, in particolare quando l’atto di liberalità coinvolge soggetti non residentiin Italia. In questo contesto, una delle questioni più dibattute riguarda l’applicazione dell’imposta italiana sulle donazioni, specialmente quando queste si realizzano tramite strumenti sofisticati come il Trust. Il recente intervento normativo (D.Lgs. n. 139/2024), che ha introdotto il comma 2-bis all’art. 2 del Testo Unico sulle Successioni e Donazioni (TUS), ha fornito un punto di riferimento, ma ha al contempo acceso un fondamentale dibattito interpretativo.

La norma stabilisce che, per un Disponente non residente in Italia, l’imposta si applica “limitatamente ai beni e diritti esistenti nel territorio dello Stato”.

Il nodo risiede nel determinare il momento esatto in cui tale requisito di territorialità debba essere verificato. Si fronteggiano due tesi contrapposte: la prima sostiene che la localizzazione dei beni vada accertata al momento del loro conferimento nel Trust (la cosiddetta “Territorialità in entrata”); la seconda, invece, posticipa tale verifica al momento della loro futura distribuzione ai Beneficiari (la “Territorialità in uscita”).

La scelta tra queste due interpretazioni non è affatto neutrale, poiché determina conseguenze operative e fiscali radicalmente diverse. La dottrina prevalente, unitamente alle più autorevoli associazioni di settore come STEP Italy, converge con solidi argomenti a favore della Territorialità in entrata. Questa tesi si fonda su ragioni di coerenza sistematica, praticità e certezza del diritto. Innanzitutto, l’imposta di donazione colpisce l’atto di spossessamento del Disponente; appare quindi logicamente conseguente che la fotografia del patrimonio, ai fini della territorialità, debba essere scattata in quel preciso istante.

Inoltre, tale interpretazione è l’unica a rendere pienamente funzionale l’opzione per la tassazione anticipata, prevista dall’art. 4-bis del TUS. Consentire al Disponente di assolvere l’imposta “in ingresso” presuppone necessariamente che la rilevanza territoriale dell’operazione sia chiara e definita fin dall’inizio, un requisito incompatibile con una verifica posticipata a un momento futuro e incerto.

Infine, un criterio “in uscita” non solo creerebbe un irrealistico onere di tracciabilità della “nazionalità” dei beni per il Trustee per l’intera durata del Trust, ma incentiverebbe anche pratiche elusive, spingendo a delocalizzare gli asset fuori dall’Italia poco prima della loro devoluzione ai Beneficiari. La tesi della Territorialità in entrata, al contrario, offre un quadro giuridico stabile e prevedibile, consentendo una pianificazione fiscale trasparente e riducendo significativamente il rischio di futuri contenziosi.

 

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L’analisi delle liberalità indirette mostra un quadro giuridico e fiscale di notevole complessità, dove la sostanza economica prevale sulla forma e l’apparente semplicità di un’operazione può celare implicazioni profonde. Dalla gestione di un bonifico di rilevante importo alla strutturazione di un Trust internazionale, emerge un principio cardine: ogni atto di trasferimento patrimoniale a titolo gratuito, indipendentemente dal veicolo utilizzato, lascia un’impronta indelebile nell’ordinamento.

Ignorare tale impronta significa esporsi a un duplice ordine di rischi: sul piano successorio, la potenziale impugnazione da parte degli eredi legittimari; sul piano fiscale, l’eventualità di accertamenti tardivi e onerosi.

 

La pianificazione patrimoniale non può prescindere da una mappatura rigorosa di tutte le liberalità effettuate (dirette e indirette) e da una valutazione attenta delle loro conseguenze nel lungo periodo.

 

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