Nelle piccole società, la distanza tra fiducia e responsabilità è spesso sottile.
Quando il Fisco interviene, la distanza può trasformarsi in una voragine.
Nelle S.r.l. a ristretta base sociale, società di capitali partecipate da un numero limitato di soci, spesso familiari o legati da relazioni personali, la gestione aziendale si fonda su un’intesa che va ben oltre le regole statutarie.
Proprio questa “complicità gestionale” può trasformarsi in un’arma a doppio taglio, soprattutto quando entra in gioco l’Agenzia delle Entrate.
Negli ultimi anni, infatti, è diventata sempre più frequente l’attività accertativa nei confronti di queste società, basata sulla presunzione di distribuzione pro quota degli utili extracontabili.
Se l’Amministrazione finanziaria individua ricavi non dichiarati, presume che tali somme siano state spartite tra i soci, a meno che questi non riescano a dimostrare il contrario.
Ma cosa succede quando i soci non sono più uniti e la gestione si frammenta tra conflitti, accuse reciproche e interessi divergenti?
Quali sono le conseguenze per chi, pur non essendo coinvolto in pratiche elusive, si trova a dover rispondere fiscalmente per scelte gestionali altrui?
La gestione delle società a responsabilità limitata di piccole dimensioni si fonda, nella maggior parte dei casi, su un equilibrio personale prima ancora che giuridico.
Quando i soci sono pochi, spesso due o tre, la condivisione delle decisioni, delle responsabilità operative e degli obiettivi imprenditoriali diventa una naturale conseguenza. È proprio in questo contesto che nasce quella che potremmo definire una complicità gestionale: un legame fiduciario, non sempre formalizzato, che trasforma i soci in veri e propri co-protagonisti della vita aziendale.
Questa complicità, nella sua accezione positiva, è un potente motore di efficienza e coesione.
I soci si sentono coinvolti, partecipano attivamente e sono spesso pronti a sacrificarsi per il bene comune dell’impresa. Questa stessa dinamica, però, se non opportunamente regolata, può diventare un fattore di rischio, soprattutto sotto il profilo fiscale e legale.
L’Agenzia delle Entrate può facilmente attribuire ai soci un ruolo attivo nella gestione, anche quando questo non corrisponde alla realtà dei fatti. Il presupposto è semplice: se pochi soggetti controllano una società, è ragionevole presumere che siano tutti a conoscenza e partecipi delle scelte aziendali, anche quelle eventualmente illecite.
La giurisprudenza ha più volte confermato questa linea interpretativa, sostenendo che nelle S.r.l. a ristretta base sociale la complicità tra soci costituisce un indizio sufficiente per presumere la distribuzione degli utili non dichiarati. Ed è su questa presunzione che si basa uno degli strumenti più insidiosi dell’Amministrazione finanziaria.
Per questo motivo, diventa fondamentale comprendere i limiti di questa presunzione, i margini di difesa disponibili per i soci non coinvolti e soprattutto quali strumenti adottare a monte, in fase di pianificazione, per evitare che una normale collaborazione diventi un fattore di vulnerabilità patrimoniale.
Il concetto di presunzione legale di distribuzione degli utili rappresenta uno dei principali strumenti utilizzati dall’Agenzia delle Entrate per contrastare l’evasione fiscale nelle società di capitali a ristretta base sociale.
Secondo questa impostazione, se un accertamento fiscale rileva l’esistenza di ricavi extracontabili, si presume, salvo prova contraria, che tali utili siano stati distribuiti in modo proporzionale tra i soci.
Ma da dove deriva questa presunzione e su quali basi si fonda?
La logica è la seguente. Quando una società è controllata da pochi soggetti, è ragionevole ritenere che questi abbiano una conoscenza approfondita e un coinvolgimento diretto nella gestione dell’impresa. Ne consegue che, se vengono rilevati utili non dichiarati, questi non sarebbero rimasti nella disponibilità della società, ma sarebbero stati divisi e ridistribuiti tra i soci.
In questo modo, l’accertamento si estende dalla società ai soci, che vengono assoggettati a imposizione personale per importi mai realmente percepiti.
La posizione dell’Amministrazione finanziaria trova conferma in numerose sentenze della Corte di Cassazione, secondo cui l’Agenzia non ha l’onere di dimostrare la distribuzione effettiva degli utili, essendo sufficiente la sussistenza di due presupposti:
A questo punto, l’onere della prova si ribalta, passando in capo al contribuente.
Sarà il singolo socio a dover dimostrare:
Questo approccio genera grandi difficoltà difensive, soprattutto nei casi in cui i soci siano in conflitto o non abbiano accesso alla documentazione interna. In pratica, anche un socio estraneo alle decisioni gestionali può ritrovarsi destinatario di un avviso di accertamento, fondato su presunzioni che difficilmente è in grado di ribaltare.
In assenza di un’organizzazione societaria trasparente e ben strutturata, il rischio che questa presunzione si traduca in un’ingiusta tassazione personale è molto concreto.
È proprio per questo che le piccole S.r.l. devono affrontare con consapevolezza il tema della governance, della documentazione interna e della pianificazione patrimoniale preventiva.
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Nel panorama delle S.r.l. a ristretta base sociale, una percentuale significativa è costituita da società a conduzione familiare. Genitori e figli, fratelli, coniugi o parenti stretti condividono spesso ruoli di soci e amministratori, convinti che la fiducia personale sia sufficiente a garantire solidità e armonia nella gestione. In effetti, il vincolo familiare può rappresentare una forza coesiva straordinaria: facilita il coordinamento, riduce i costi decisionali e promuove una visione comune dell’impresa.
Quando il rapporto personale prende il sopravvento su quello societario, i rischi si moltiplicano.
Le dinamiche emotive, i non detti, le aspettative implicite e le rivalità latenti possono generare squilibri nella gestione e nei rapporti tra soci.
E quando emergono divergenze, per questioni di potere, di distribuzione degli utili o di visione strategica, il conflitto è spesso più aspro e meno razionale rispetto a quello che si svilupperebbe tra soci “estranei”.
In questo contesto, la complicità iniziale tra soci-familiari può trasformarsi in opacità gestionale, alimentando sospetti reciproci e favorendo comportamenti poco trasparenti.
È facile che un socio, approfittando della fiducia degli altri, gestisca ricavi non dichiarati o utili extracontabili, confidando nell’impossibilità o nella reticenza degli altri soci di denunciare o contrastare tali scelte.
Quando questi episodi vengono intercettati dall’Amministrazione finanziaria, la presunzione di distribuzione pro quota colpisce indistintamente tutti i soci, anche quelli che non erano coinvolti nella gestione operativa o che sono stati tenuti all’oscuro.
In un contesto familiare, in cui i rapporti personali si intrecciano con quelli patrimoniali, difendersi diventa doppiamente difficile. Da un lato si rischia il deterioramento irreversibile dei rapporti; dall’altro si affrontano conseguenze fiscali potenzialmente devastanti.
Come stabilito da più sentenze di Cassazione, il socio può sottrarsi all’imposizione solo dimostrando la propria estraneità alla gestione.
Ma ti spiegherò di seguito che fornire questa prova non è semplice, soprattutto quando i conflitti familiari impediscono la condivisione della documentazione e alimentano accuse reciproche.
La commistione tra affetti e affari, se non gestita con strumenti adeguati, può trasformare l’impresa familiare in una trappola patrimoniale e fiscale. Per questo, la prevenzione attraverso una governance trasparente e strumenti giuridici idonei è una necessità, non un’opzione.
Una volta scattata la presunzione fiscale di distribuzione degli utili extracontabili, il socio si trova in una posizione delicata: sta a lui dimostrare di non aver ricevuto alcuna somma, nonostante l’Agenzia delle Entrate lo ritenga corresponsabile in forza della sua partecipazione societaria.
Questa “prova contraria” è l’unico strumento a disposizione del contribuente per respingere l’accertamento.
Ma cosa significa, nella pratica? E quali sono gli strumenti utilizzabili?
In linea generale, il socio può ricorrere a diverse forme documentali e testimoniali per tentare di dimostrare:
Tra le prove ammissibili si annoverano:
La giurisprudenza è severa. Non basta dimostrare la semplice assenza di accrediti bancari o di redditi dichiarati. Secondo la Cassazione, il contribuente deve fornire la prova sia dell’assenza di utili percepiti sia della loro destinazione alternativa. Non è sufficiente dire “Non ho ricevuto nulla”, bisogna anche spiegare dove sono finiti quegli utili.
Le pronunce della Corte di Cassazione sono numerose e spesso restrittive. In particolare, le sentenze n. 5073/2021 e n. 8915/2020 hanno ribadito che il socio, per vincere la presunzione, deve dimostrare di essere estraneo alla gestioneoppure fornire elementi concreti che smentiscano la ripartizione pro quota.
Più di recente, con le sentenze n. 21790/2022 e n. 15991/2024, la giurisprudenza ha aperto uno spiraglio, riconoscendo che, in casi particolari, la prova dell’estraneità alla gestione può essere sufficiente per escludere il socio dall’accertamento. Ciononostante, resta il nodo della difficoltà pratica. Come può un socio dimostrare di non aver partecipato a decisioni o di non essere stato informato di certi fatti, soprattutto in presenza di conflitti e rapporti deteriorati?
Nel concreto, fornire questa prova contraria è spesso un’impresa ardua. In molte S.r.l. a conduzione familiare, le decisioni non vengono verbalizzate, la gestione è accentrata in capo a un solo socio o amministratore, e l’accesso alla documentazione è limitato. Nei casi di conflitto, poi, la collaborazione tra soci diventa inesistente, e reperire le prove diventa quasi impossibile.
È proprio in questi contesti che emerge il valore di una pianificazione preventiva, capace di introdurre elementi di trasparenza, distinzione di ruoli e assetti giuridici chiari. E tra gli strumenti più efficaci in questo senso, spicca senza dubbio il Trust di famiglia.
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Il momento più critico per una piccola società non è solo quello in cui arriva un avviso di accertamento, ma quando i soci, già divisi da dissidi personali o professionali, si ritrovano improvvisamente uniti nella responsabilità fiscale.
È in queste situazioni che la presunzione di distribuzione degli utili mostra tutta la sua portata lesiva, soprattutto nei confronti di chi, pur formalmente socio, è di fatto estraneo alla gestione.
Immaginiamo il caso di una S.r.l. con due soci al 50%, dove uno dei due ricopre anche il ruolo di amministratore. Dopo anni di collaborazione, il rapporto si deteriora: divergenze sulla gestione, mancata trasparenza, disaccordi sugli utili. A un certo punto, l’Agenzia delle Entrate notifica un accertamento per ricavi non dichiarati. Il socio non amministratore, convinto di essere al riparo da conseguenze, si ritrova invece destinatario di un accertamento personale per utili mai percepiti.
A sua difesa, può esibire gli estratti conto che attestano la mancata ricezione di bonifici o dividendi. Come chiarito dalla Cassazione, la semplice mancanza di movimenti finanziari non è sufficiente.
È necessario anche dimostrare la destinazione alternativa degli utili o, in subordine, la propria estraneità alla gestione.
Un caso emblematico è stato trattato proprio dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 21790/2022), in cui un socio riuscì a dimostrare:
La Corte di Cassazione, in quel caso, ha riconosciuto la possibilità di disattendere la presunzione, ma ha anche ribadito l’eccezionalità della circostanza: il socio deve dimostrare in modo concreto e documentato la sua totale estraneità.
Ma cosa accade quando il socio amministratore o il socio di maggioranza non collabora o, peggio, nega l’accesso alla documentazione? In assenza di strumenti giuridici idonei a regolare ruoli e poteri, il socio “debole” resta senza difese. L’unico modo per evitare queste situazioni è intervenire prima che il conflitto si manifesti, strutturando la governance e adottando soluzioni di tutela efficaci.
Il Trust di famiglia può rappresentare una valida alternativa, perché introduce una separazione tra la titolarità formale e la gestione delle quote, limitando le conseguenze dirette sul socio persona fisica e offrendo un quadro di maggiore equilibrio e protezione.
Quando le dinamiche societarie si fanno complesse, i conflitti si intensificano e l’Agenzia delle Entrate entra in gioco con presunzioni fiscali onerose, l’unica vera tutela è preventiva.
È qui che entra in scena il Trust di famiglia, uno strumento giuridico spesso sottovalutato, ma estremamente efficace nella gestione ordinata e protetta delle partecipazioni societarie.
A differenza della società intestata direttamente ai singoli soci, la conservazione delle quote in un Trust rompe la catena di complicità gestionale che sta alla base della presunzione di distribuzione degli utili. Le quote non sono più intestate alla persona fisica, ma al Trustee, che ha l’obbligo di conservarle e amministrarle secondo le finalità dell’atto istitutivo.
Questo comporta un distacco formale e sostanziale tra i Beneficiari del Trust (come i membri della famiglia) e la gestione diretta della società.
Il socio, in quanto Beneficiario del Trust, non ha un rapporto diretto con la società e non esercita poteri gestionali, a meno che ciò non sia espressamente previsto. Questa configurazione riduce, oppure annulla, il rischio che l’Agenzia delle Entrate possa imputare automaticamente utili extracontabili al soggetto persona fisica.
Dal punto di vista fiscale, l’utilizzo di un Trust ben strutturato ha due effetti principali:
Ci tengo a precisare che questo vale solo se l’atto istitutivo del Trust è redatto in modo rigoroso e professionale, indicando chiaramente le finalità conservative delle quote e i limiti all’intervento dei beneficiari nella gestione della società.
Il Trust, oltre a essere uno scudo fiscale, è anche uno strumento di governance intelligente. Riducendo l’interferenza diretta dei soci nelle dinamiche gestionali, consente una maggiore neutralità nelle decisioni, evita fratture relazionali e rafforza la coesione familiare o societaria.
Il Trustee, in qualità di soggetto terzo, agisce nell’interesse del patrimonio segregato, con regole chiare e responsabilità definite.
Ne deriva un ambiente più stabile, con meno conflitti e più protezione per tutti. I soci non sono più esposti personalmente a conseguenze fiscali per fatti di cui non hanno conoscenza o responsabilità diretta.
Il tema della presunzione di distribuzione degli utili extracontabili nelle S.r.l. a ristretta base sociale evidenzia quanto sia fragile l’equilibrio tra i soci quando manca una pianificazione chiara e lungimirante. In un contesto in cui l’Agenzia delle Entrate può estendere gli effetti fiscali dell’accertamento anche a chi è solo formalmente socio, la mancanza di strumenti giuridici adeguati può trasformarsi in un serio rischio personale e patrimoniale.
I casi più critici emergono proprio laddove i soci sono legati da rapporti familiari, da fiducia reciproca o da anni di collaborazione.
La complicità iniziale diventa corresponsabilità fiscale; la fiducia si trasforma in vulnerabilità.
E in questi casi, la prova contraria richiesta dalla giurisprudenza si rivela spesso un ostacolo insormontabile.
La buona notizia è che una corretta pianificazione può prevenire tutto questo.
Strumenti come il Trust di famiglia, se utilizzati con intelligenza e competenza, permettono di:
Naturalmente, per essere efficace, la pianificazione deve essere progettata su misura, nel rispetto delle normative vigenti e tenendo conto delle reali esigenze e necessità. Ogni struttura, ogni famiglia, ogni società ha le proprie peculiarità. Ed è solo partendo da queste che si possono costruire soluzioni giuridiche efficaci, solide e durature.