Negli ultimi anni, la giurisprudenza tributaria ha progressivamente ampliato l’ambito applicativo della presunzione di distribuzione di utili extracontabili nelle società a ristretta base partecipativa. Un principio inizialmente circoscritto alle S.r.l. con pochi soci ma oggi, a seguito della Sentenza n. 7815/2025 della Corte di Cassazione, si estende anche alle società per azioni.
Si tratta di un passaggio giurisprudenziale rilevante, che solleva importanti questioni sia sul piano della certezza del diritto, sia sotto il profilo della tutela patrimoniale dei soci. La tesi della Cassazione è la seguente: in presenza di una compagine ristretta, l’Amministrazione Finanziaria può presumere, salvo prova contraria, che eventuali utili non dichiarati siano stati distribuiti tra i soci in proporzione alle rispettive quote di partecipazione.
Questo orientamento comporta un aggravio di responsabilità per gli imprenditori e gli investitori coinvolti, che si trovano a fronteggiare un sistema di presunzioni fiscali sempre più penetrante.
In questo caso, diventa fondamentale conoscere le implicazioni operative, le recenti pronunce di legittimità e le soluzioni giuridiche e patrimoniali più efficaci per prevenire rischi futuri, tra cui l’intestazione delle partecipazioni a un Trust opaco.
Nel linguaggio giuridico-tributario, l’espressione “società a ristretta base partecipativa” non trova una definizione normativa codificata, ma è frutto di elaborazione giurisprudenziale e dottrinale. Essa si riferisce, in termini sostanziali, a quelle società di capitali, generalmente S.r.l., in cui la compagine sociale è limitata a un numero esiguo di soci, solitamente legati tra loro da rapporti personali, familiari o professionali, presumibilmente informati sull’andamento dell’attività sociale.
La rilevanza fiscale di tale configurazione risiede nella possibilità, riconosciuta all’Amministrazione Finanziaria, di presumere la distribuzione tra i soci degli utili extracontabili accertati in capo alla società. Si tratta di una presunzione iuris tantum: opera salvo prova contraria, che tuttavia ricade in capo al contribuente. Questo orientamento trae origine da una consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo cui, in presenza di un assetto proprietario ristretto, è ragionevole ritenere che gli utili non dichiarati siano stati effettivamente ripartiti tra i soci, in proporzione alle rispettive quote.
Secondo la Suprema Corte, la ristrettezza della base sociale implica una presunzione di consapevolezza e compartecipazione alla gestione dell’impresa, nonché una maggiore probabilità che eventuali vantaggi economici, non ufficialmente riportati in bilancio, siano stati percepiti dai soci stessi. Tale principio è stato affermato, tra le altre, con le sentenze Cass. 19 gennaio 2021, n. 752 e Cass. 30 gennaio 2024, n. 2752, dove si ribadisce che “la ristretta base sociale comporta un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione, con conseguente consapevolezza dell’esistenza di utili extra-bilancio”.
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Le autorità fiscali possono presumere che ci siano stati utili non dichiarati. Ciò porta a contestazioni di maggiori imposte sia per la società che per i soci.
Se viene contestata la distribuzione di utili, spetta ai soci dimostrare il contrario, con elementi concreti e documenti. Potrebbe, però, essere abbastanza difficile e complicato, poiché non è sempre facile provare l’inesistenza di utili.
Le società a ristretta base partecipativa possono trovarsi in una posizione svantaggiata rispetto a quelle con un numero maggiore di soci, che non affrontano le medesime presunzioni fiscali.
Questa impostazione, applicata per oltre due decenni alle S.r.l., ha ora subito un’estensione rilevante, con conseguenze potenzialmente dirompenti per le società di piccole e medie dimensioni, spesso organizzate sotto forma di S.p.A. semplificate o familiari. Il punto di svolta si è registrato con la sentenza n. 7815/2025, che ha definitivamente incluso anche le S.p.A. tra i soggetti a cui può applicarsi la presunzione di distribuzione degli utili extracontabili.
Il principio della presunzione di distribuzione degli utili extracontabili nelle società a ristretta base partecipativa affonda le radici in un filone giurisprudenziale ormai consolidato, ma ha conosciuto nel 2024 e nel 2025 due tappe fondamentali che ne hanno rafforzato e ampliato la portata. Si tratta delle sentenze n. 2752/2024 e n. 7815/2025 della Corte di Cassazione, che rappresentano rispettivamente la cristallizzazione del principio e la sua estensione formale alle società per azioni.
La sentenza n. 2752, depositata il 30 gennaio 2024, si inserisce nella lunga linea interpretativa secondo cui, in presenza di una compagine ristretta e sostanzialmente stabile, è legittimo presumere che gli utili extracontabili accertati in capo alla società siano stati distribuiti pro quota ai soci.
Ciò che rileva, secondo la Corte, non è la forma giuridica in sé, ma la dinamica relazionale e la struttura del controllo interno. Quando vi è un numero limitato di soci, ciascuno tendenzialmente coinvolto o informato sull’andamento della gestione, si presume che vi sia una compartecipazione consapevole all’attività societaria, quindi anche all’eventuale occultamento o ripartizione informale di utili non contabilizzati.
La presunzione opera per trasparenza, assimilando di fatto, in via eccezionale, le società di capitali alle società di persone sotto il profilo dell’imputazione fiscale del reddito. In assenza di prova contraria, ogni socio è chiamato a rispondere in proporzione alla propria quota di partecipazione.
La Corte, pur ribadendo il principio, lascia impregiudicata la possibilità, in astratto, per il socio di fornire prova contraria. Ma nei fatti, come la giurisprudenza stessa riconosce, si tratta di un onere estremamente gravoso, che richiede documentazione puntuale, tracciabilità finanziaria e dimostrazione di un reale mancato arricchimento.
Il vero elemento di svolta arriva con la pronuncia n. 7815 del 24 marzo 2025, che affronta per la prima volta in modo diretto l’applicabilità della presunzione alle società per azioni.
In tale sentenza, la Corte si è pronunciata su un caso in cui l’Agenzia delle Entrate aveva contestato a una S.p.A., caratterizzata da una compagine di tre soci, tutti operativi, la presenza di ricavi non contabilizzati e aveva imputato pro quota gli utili presunti ai soci stessi.
Il contribuente aveva impugnato l’atto, sostenendo che tale presunzione era inapplicabile alle S.p.A., data la loro diversa struttura organizzativa e l’assenza di vincoli personali tra i soci.
La Suprema Corte ha respinto integralmente la tesi del ricorrente, affermando un principio di diritto destinato a incidere in modo sistemico: “Per l’applicazione della presunzione di distribuzione degli utili extracontabili fra i soci di una società a ristretta base azionaria, non è necessario che tra i soci sussista un legame familiare o di parentela. È sufficiente che la compagine sia ridotta per ritenere ragionevolmente la comune consapevolezza e compartecipazione agli utili occulti”.
L’effetto è l’assimilazione funzionale tra S.r.l. e S.p.A. con base sociale ristretta.
Nonostante le differenze formali (capitale minimo, obblighi di governance, accesso al mercato) la Corte riconosce che, in presenza di una base proprietaria limitata, anche una S.p.A. può essere assoggettata alla medesima presunzione, con tutte le conseguenze sul piano dell’imposizione fiscale.
L’estensione alle S.p.A. introduce una frattura potenziale nel sistema delle tutele garantite dalla personalità giuridica e dall’autonomia patrimoniale delle società di capitali. Di fatto, il principio secondo cui “la società risponde delle proprie obbligazioni con il proprio patrimonio” viene affiancato da un regime presuntivo in cui la responsabilità fiscale si estende indirettamente ai soci, al di là di delibere, verbali e distribuzioni formali.
L’argomento utilizzato dalla Corte (la ristretta base partecipativa come indice di compartecipazione) appare coerente sotto il profilo indiziario, ma rischia di tradursi in una presunzione invasiva e difficilmente superabile per il contribuente. A fronte di una contabilità contestata, anche in buona fede, si attiva un meccanismo fiscale che colpisce direttamente la sfera patrimoniale dei soci, invertendo l’onere della prova e costringendo questi ultimi a dimostrare un “non arricchimento”.
Può una struttura societaria, per il solo fatto di essere snella, essere considerata fiscalmente meno garantita?
È un tema delicato, che attiene al principio di capacità contributiva e alla parità di trattamento tra i diversi modelli organizzativi d’impresa.
Una delle maggiori problematiche connesse all’applicazione della presunzione di distribuzione degli utili extracontabili nelle società a ristretta base partecipativa riguarda la prova contraria.
In termini giuridici, si tratta di una presunzione relativa (iuris tantum), dunque superabile. Tuttavia, nei fatti, la possibilità di fornire una prova efficace da parte dei soci si rivela estremamente complessa.
Secondo la Corte di Cassazione, spetta al singolo socio dimostrare non solo di non aver percepito alcuna somma, ma anche di essere rimasto estraneo alla gestione e alle dinamiche decisionali della società. Ciò comporta un doppio livello probatorio:
In pratica, viene richiesto al contribuente di dimostrare un fatto negativo (la mancata percezione di un utile che non esiste in bilancio), attraverso elementi positivi di prova. Un onere sproporzionato, spesso insostenibile, soprattutto in realtà imprenditoriali di dimensioni contenute, dove la tracciabilità delle decisioni e delle operazioni può risultare limitata.
L’effetto sistemico è la traslazione automatica della pretesa impositiva dalla società al socio, con potenziali duplicazioni impositive (IRES per la società, imposta sostitutiva sui dividendi per il socio) e conseguente squilibrio nella posizione del contribuente. È proprio questo automatismo, unito all’inversione dell’onere della prova, a generare la principale criticità di sistema.
Inoltre, la giurisprudenza più recente ha ribadito che la presunzione può operare anche in assenza di elementi indiziari specifici, sulla sola base della ristrettezza della compagine sociale. Ciò determina una situazione paradossale: più la società è “piccola” o familiare, maggiore è l’esposizione al rischio fiscale, indipendentemente dalla correttezza gestionale.
Questo meccanismo presuntivo si inserisce in un contesto normativo privo di regole chiare o codificate. Non esiste, infatti, un articolo del TUIR o dello Statuto del Contribuente che disciplini espressamente la presunzione di distribuzione. Tutto si fonda su interpretazioni giurisprudenziali e prassi amministrative stratificate, che rendono incerto il diritto e imprevedibile il contenzioso.
Il risultato è un circolo vizioso:
In mancanza di documenti inequivocabili (come delibere di accantonamento, piani di reinvestimento, prove bancarie), la difesa risulta inefficace.
È in questo quadro che si inserisce l’esigenza di trovare soluzioni strutturate di protezione, non solo in ottica contenziosa, ma anche e soprattutto in chiave preventiva, capaci di neutralizzare o limitare l’operatività automatica della presunzione.
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Di fronte a un sistema di presunzioni fiscali sempre più esteso e difficilmente superabile, soprattutto per le società a ristretta base partecipativa, è necessario adottare strumenti giuridici idonei a interrompere l’automatismo tra accertamento societario e responsabilità personale dei soci. Tra le soluzioni più efficaci, coerenti con l’ordinamento e consolidate nella prassi professionale, si segnala l’intestazione delle quote a un Trust opaco.
Il Trust è un istituto di derivazione anglosassone, recepito nell’ordinamento italiano con la legge n. 364/1989 (ratifica della Convenzione dell’Aja del 1985) e oggi pienamente operativo attraverso l’autonomia negoziale dei privati. In ambito patrimoniale, il Trust si caratterizza per la creazione di un patrimonio separato rispetto a quello del Disponente, del Trustee e dei Beneficiari.
Nel caso del Trust opaco, la peculiarità è rappresentata dall’assenza di attribuzioni dirette ai beneficiari, che non hanno un diritto attuale sui redditi prodotti dal Trust, né tantomeno sulle quote societarie in esso conferite. Il reddito, infatti, rimane fiscalmente imputato al Trust stesso, in quanto soggetto passivo autonomo ai sensi dell’art. 73, comma 1, lett. b) del TUIR.
Questo comporta un effetto giuridico e fiscale preciso: il socio che conferisce le proprie partecipazioni nel Trust non è più, formalmente e sostanzialmente, titolare delle stesse. Di conseguenza, non può essere raggiunto da un accertamento personale fondato sulla presunzione di distribuzione di utili extracontabili, in quanto viene meno il presupposto soggettivo su cui tale presunzione si fonda.
Dunque, l’articolo 73 TUIR, comma 1, stabilisce le modalità di tassazione applicabili. In tal senso, il Trust si presenta come un autonomo soggetto passivo IRES, con un’aliquota pari al 24%; il che lo rende un’opzione molto interessante per chi desidera ottimizzare la propria pianificazione patrimoniale, in quanto i Beneficiari non pagheranno più altre imposte.
Se si sceglie di inserire tra il Trust opaco e la S.r.l. o una S.p.A. una società di persone come la S.a.s., la tassazione scende ulteriormente: dal 24& al 13,95%. Anche in questo caso, i Beneficiari non pagheranno mai ulteriori imposte.
In caso di successione delle quote, non ci saranno imposte di successione e donazione.
La ratio che giustifica l’applicazione della presunzione, ossia la solidarietà gestionale tra pochi soci e la loro consapevolezza reciproca, viene neutralizzata dal Trust, in quanto:
Il Trust agisce come scudo trasparente e legittimo, capace di disarticolare il vincolo che la giurisprudenza presume esistere nelle compagini ristrette.
Inoltre, trattandosi di una struttura autonoma e fiscalmente riconosciuta, consente anche un’ottimizzazione della tassazione dei redditi societari eventualmente percepiti.
Affinché il Trust sia efficace e non contestabile in sede di accertamento, è fondamentale che sia strutturato in modo corretto. In particolare, occorre:
In assenza di questi presupposti, l’Agenzia delle Entrate potrebbe contestare la natura fittizia dell’operazione. Ma se il Trust è ben strutturato, documentato e coerente con le finalità dichiarate, si rivela un presidio solido contro l’imputazione personale di redditi presunti.
L’evoluzione giurisprudenziale che ha portato all’estensione della presunzione di distribuzione degli utili extracontabili anche alle S.p.A. a ristretta base partecipativa segna un passaggio importante per il diritto tributario italiano. Le pronunce della Corte di Cassazione, in particolare la sentenza n. 7815/2025, confermano una tendenza ormai consolidata: in presenza di una compagine ridotta, l’Amministrazione Finanziaria è legittimata a imputare pro quota ai soci utili non dichiarati, anche in assenza di distribuzione formale.
Questa impostazione, pur fondata su ragioni di efficienza e controllo fiscale, genera un’evidente asimmetria di tutela, penalizzando strutturalmente le società più snelle e flessibili, spesso scelte proprio per motivi operativi o di governance. In assenza di una norma primaria che disciplini chiaramente presupposti, limiti e modalità applicative della presunzione, il rischio di incertezza e contenzioso resta elevato.
Il conferimento delle quote societarie in un Trust opaco rappresenta una delle soluzioni più efficaci, legittime e trasparenti per spezzare il legame presuntivo tra società e soci, proteggendo non solo il capitale, ma anche la serenità personale e familiare dell’imprenditore.
La scelta di ricorrere a strumenti giuridici evoluti è un atto di pianificazione consapevole, che richiede competenza tecnica, visione strategica e piena aderenza alla normativa fiscale.