Essere un professionista del settore fiscale significa dover conoscere le leggi e i regolamenti fiscali. Oggi, uno dei temi più dibattuti è la soggettività fiscale del Trust.
Il Trust, come strumento di pianificazione patrimoniale, può diventare terreno fertile per la nascita di pregiudizi e malintesi, sia per i contribuenti che per l’Agenzia delle Entrate.
Il Trust è uno strumento giuridico che consente di gestire, proteggere i propri beni e assicura anche una successione efficiente e sicura.
Ma cosa significa realmente? In parole semplici, un Trust è un atto unilaterale in cui una persona, il Disponente, trasferisce beni a un’altra persona, il Trustee, affinché questi li gestisca per il beneficio di un terzo, i Beneficiari.
Molto spesso si pensa che il Trust si basi sulla fiducia personale tra il Disponente e il Trustee, ma in realtà la situazione è ben diversa. Non si tratta certamente di affidarsi ciecamente.
Il Disponente non deve riporre fiducia nel Trustee, ma deve sceglierlo in base alle sue capacità professionali.
Il Trustee, accettando l’incarico, si impegna a rispettare un obbligo fiduciario, ovvero deve compiere specifiche azioni stabilite dal Disponente e ne è responsabile per l’intera durata del contratto. Per chiarire ulteriormente, pensa a un mandato fiduciario dove devi davvero fidarti del fiduciario, poiché ha ampi poteri di agire anche senza una richiesta specifica. L’unico potere che il fiduciante ha è quello di richiedere danni al giudice per l’inadempienza contrattuale del fiduciario, e non sempre è possibile recuperare il bene.
È per questo che oggi esistono fiduciarie legate a banche o a grandi gruppi, poiché guadagnare fiducia nel mercato richiede molti anni. Al contrario, il Trustee non può agire arbitrariamente. Accettando l’incarico, il Trustee assume un’obbligazione fiduciaria, ovvero si impegna a seguire quanto scritto nell’atto istitutivo, che è stato deciso dal Disponente. Non può, quindi, discostarsi da quei parametri e da quelle regole.
Proprio per evitare abusi e garantire il rispetto delle volontà del Disponente, si è diffusa la prassi di inserire nell’atto istitutivo la figura del Guardiano, dotato di poteri di veto o supervisione.
Il cuore del Trust è rappresentato dalle persone coinvolte e dai ruoli che esse ricoprono. In particolar modo, tre sono le figure fondamentali: il Disponente, il Trustee e i Beneficiari, a cui si aggiunge anche il Guardiano.
Il Trustee è colui che riceve i beni dal Disponente e che si impegna a gestirli secondo le istruzioni contenute nell’atto istitutivo.
Questo ruolo comporta obblighi precisi e responsabilità giuridiche:
Non sempre, però, il Trustee ha ampia discrezionalità. In molti casi, l’atto istitutivo definisce nel dettaglio cosa può e non può fare. Quando è richiesta una supervisione più puntuale o si desidera inserire un ulteriore elemento di controllo, entra in gioco la figura del Guardiano, che può avere poteri di veto su specifiche decisioni del Trustee, rappresentando così una garanzia in più per il rispetto della volontà originaria del Disponente.
I Beneficiari sono coloro che traggono vantaggio dal Trust. Ma anche in riferimento ai beneficiari, è opportuno fare delle distinzioni. Alcuni possono essere identificati nominativamente, altri possono essere solo individuati per categoria (ad esempio, “i miei nipoti”). In base a quanto stabilito dal Disponente, essi possono essere informati o meno dell’esistenza del Trust o dell’entità del patrimonio in esso contenuto. In alcuni casi, infatti, l’atto istitutivo impone l’obbligo di informazione; in altri, stabilisce espressamente il divieto di comunicazione.
La trasparenza, comunque, è una componente fondamentale. Un Trustee professionale deve fornire rendicontazioni periodiche, aggiornamenti sull’andamento della gestione e documentazione che giustifichi le scelte compiute. In mancanza di tale chiarezza, possono sorgere incomprensioni e conflitti che minano la stabilità del Trust.
È altresì fondamentale la comunicazione tra il Trustee e i Beneficiari, che deve essere chiara e regolare, al fine di prevenire malintesi e conflitti futuri. Il Trustee deve fornire report dettagliati e aggiornamenti sull’andamento della gestione dei beni, assicurandosi che ogni decisione sia ben documentata e giustificata.
Per comprendere appieno la natura del Trust, è utile metterlo a confronto con altri strumenti giuridici di gestione del patrimonio, come il mandato fiduciario, il rapporto fiduciario con società fiduciarie e le società di capitali, in particolare le S.r.l.
Nel mandato fiduciario, il fiduciario agisce per conto del mandante e può avere ampi poteri, spesso non formalmente vincolati da istruzioni precise. Ciò, però, comporta un rischio maggiore per il mandante. Come già spiegato, se il fiduciario agisce in modo scorretto o oltre i limiti, il rimedio è solo giudiziario e non garantisce il recupero del bene. Inoltre, la protezione patrimoniale offerta da un mandato fiduciario è, di fatto, debole; i beni possono essere aggrediti dai creditori del mandante o del fiduciario, a seconda della struttura.
Le società fiduciarie offrono un servizio professionale di intestazione e gestione, spesso garantito da strutture bancarie o da grandi gruppi finanziari. La fiducia nel fiduciario deriva in questo caso dalla solidità e reputazione dell’intermediario. Anche in questo caso il bene rimane formalmente nella disponibilità del fiduciario, e l’assetto non prevede una separazione patrimoniale così netta come quella realizzata da un Trust.
Nel Trust il patrimonio trasferito al Trustee diventa a tutti gli effetti un patrimonio separato.
Non è più nella disponibilità del Disponente, non è aggredibile dai creditori del Trustee (salvo in caso di frode) e, soprattutto, è vincolato a uno scopo preciso: il beneficio dei Beneficiari secondo quanto stabilito nell’atto istitutivo.
Nelle società di capitali, gli amministratori agiscono nell’interesse della società stessa e dei soci, ma i beni appartengono giuridicamente alla società, che è soggetto autonomo. Nel Trust, invece, non c’è una “personalità giuridica” distinta: è il Trustee che amministra direttamente i beni, ma sempre per conto altrui, secondo finalità predeterminate. Questo lo rende più flessibile, ma anche più complesso da interpretare dal punto di vista fiscale.
La differenza principale, dunque, è data dalla natura fiduciaria e vincolata del Trust, che non esiste nei modelli di mandato o nelle strutture societarie.
Sebbene il Trust non sia un istituto originario dell’ordinamento giuridico italiano, il suo riconoscimento è pienamente valido grazie alla ratifica della Convenzione dell’Aja del giorno 1 luglio 1985, avvenuta con la Legge 16 ottobre 1989, n. 364. Il trattato internazionale ha consentito l’ingresso del Trust nel sistema giuridico italiano, attribuendogli efficacia giuridica e vincolando il legislatore italiano a rispettarne struttura e principi fondamentali.
L’Italia, dunque, riconosce la validità dei Trust istituiti secondo una legge straniera, la cosiddetta “legge regolatrice del Trust”, purché rispondano ai requisiti sostanziali previsti dalla Convenzione:
Nonostante la cornice giuridica internazionale ne garantisca la legittimità, non mancano le difficoltà legate all’interpretazione fiscale.
L’inquadramento del Trust nel sistema tributario italiano è stato ed è un terreno instabile, soggetto a interpretazioni mutevoli e spesso non allineate con le prassi internazionali. La mancanza di una normativa interna sistematica e la prevalente impostazione antielusiva hanno alimentato dubbi e contenziosi, in particolare sulla soggettività passiva ai fini delle imposte dirette e indirette.
È per questo che, pur essendo uno strumento perfettamente legittimo, il Trust necessita oggi più che mai di chiarezza normativa e certezza interpretativa. Solo così potrà essere valorizzato come leva efficace di pianificazione patrimoniale e non relegato al ruolo di presunto strumento elusivo.
In molte giurisdizioni, il Trust è considerato uno strumento legittimo e utile per la pianificazione patrimoniale. Le normative in altri Paesi possono differire notevolmente. Ad esempio, in alcune giurisdizioni, i beni in Trust non sono soggetti a tassazione fino a quando non vengono distribuiti ai Beneficiari. Questo approccio offre maggiore sicurezza e stabilità. Anche l’Italia ha intrapreso questa strada, il che conferisce maggiore stabilità allo strumento giuridico, come dimostra il D. Lgs 139/2024 pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 2 ottobre 2024.
La certezza normativa è un elemento chiave per la sostenibilità del Trust nel panorama fiscale.
L’assenza di una disciplina organica e autonoma sul Trust nel diritto tributario italiano ha lasciato spazio, nel tempo, a una stratificazione di prassi, circolari e interpretazioni dell’Agenzia delle Entrate. Una delle più significative in questo contesto è la Circolare n. 34/E del 20 ottobre 2022, che si inserisce nel solco tracciato già con il Documento di prassi del 2019, confermandone l’impostazione.
La Circolare del 2022, nel tentativo di fornire chiarezza sul trattamento fiscale dei Trust, ha finito per alimentare ulteriori dubbi, soprattutto in tema di soggettività tributaria. Uno degli aspetti più controversi riguarda il caso dei Trust interposti, ossia quelli che l’Agenzia considera come meri schermi fittizi, attribuendo al disponente la piena disponibilità dei beni.
In particolare, il documento afferma che, in caso di decesso del Disponente di un Trust ritenuto interposto, i beni confluiti nel Trust devono essere considerati parte dell’attivo ereditario, con tutte le conseguenze tributarie che ne derivano. Ma qui emerge un paradosso giuridico: come può un bene formalmente e sostanzialmente separato, non più appartenente al Disponente, rientrare nella sua eredità?
La disciplina successoria è materia civilistica ed è fondata sulla titolarità giuridica dei beni. Se i beni sono stati validamente segregati nel Trust e non risultano più intestati al Disponente, è contraddittorio, sotto il profilo civilistico, considerarli parte della successione. La circolare, invece, assume una prospettiva basata sul concetto di “disponibilità economica”, che però non trova un fondamento coerente nella struttura giuridica del Trust.
Questo approccio contribuisce ad accrescere l’incertezza normativa, disorienta i contribuenti e scoraggia l’utilizzo di uno strumento che, a livello internazionale, è invece ampiamente impiegato nella gestione patrimoniale. Per evitare fraintendimenti e contenziosi, sarebbe auspicabile un intervento legislativo chiarificatore, capace di armonizzare la visione fiscale con i principi giuridici che regolano l’istituto.
Il Trust offre un’opportunità unica per la protezione dei patrimoni e la pianificazione successoria.
Questo strumento potente e versatile può essere utilizzato per proteggere i beni, pianificare la successione e garantire che i tuoi desideri vengano rispettati.
Se stai considerando di utilizzare il Trust, è fondamentale conoscere a fondo questo strumento giuridico. Ti consiglio di acquisire maggiore consapevolezza, attraverso la lettura del libro IL TRUST A CHIARE LETTERE, un manuale scritto in modo chiaro e semplice, pensato per gli esperti del settore e anche per chi non lo è.
Il tema della disparità di trattamento fiscale tra Trust e Società di capitali è complesso e spesso frainteso. Infatti, uno degli aspetti più dibattuti nel panorama tributario italiano è la soggettività fiscale del Trust ai fini dell’IRES, l’imposta sul reddito delle società. A differenza delle società di capitali, il Trust non è una persona giuridica, ma può essere considerato, in determinate condizioni, un soggetto passivo d’imposta, assimilato agli enti non commerciali.
La questione centrale è se il Trust debba essere tassato in quanto entità autonoma, oppure se i redditi prodotti dai beni in Trust debbano essere attribuiti ai Beneficiari o, addirittura, al Disponente, in caso di interposizione fittizia. Il TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi) distingue tra Trust “trasparenti” e “opachi”. Nel primo caso, i redditi sono imputati direttamente ai Beneficiari, nel secondo, il Trust è tassato come soggetto autonomo.
L’Agenzia delle Entrate, infatti, tende ad attribuire la soggettività IRES al Trust solo se quest’ultimo ha piena autonomia gestionale, se non è revocabile in modo arbitrario dal Disponente e se i Beneficiari non hanno un diritto immediato sui redditi. In caso contrario, può scattare la presunzione di interposizione.
Questa posizione genera asimmetrie evidenti rispetto ad altri strumenti giuridici. Ad esempio, un socio di S.r.l. può nominare e revocare l’amministratore senza che ciò implichi l’attribuzione diretta di redditi al socio stesso. Perché allora, nel caso del Trust, la possibilità di revoca o controllo dovrebbe essere considerata elemento indiziario di interposizione?
Le conseguenze legali di questa disparità possono essere gravi. Le contestazioni di interposizione fittizia possono portare a rettifiche delle dichiarazioni dei redditi e sanzioni.
Il risultato di tale impostazione è una crescente incoerenza interpretativa che alimenta l’incertezza fiscale e mina la fiducia degli operatori. In assenza di criteri univoci, ogni Trust rischia di essere valutato caso per caso, con conseguenze potenzialmente gravi sul piano impositivo.
Occorre allora una riflessione più ampia e sistemica sul ruolo del Trust nel nostro ordinamento tributario. La soggettività fiscale del Trust non può essere decisa sulla base di presunzioni o analogie discutibili, ma deve essere ancorata a principi certi e coerenti con la sua struttura giuridica.
È fondamentale che le pratiche fiscali siano uniformi e non soggette a interpretazioni errate. Una revisione delle normative fiscali riguardanti i Trust potrebbe portare a una maggiore chiarezza e a un trattamento più equo.
Il concetto di interposizione fittizia è evocato nel contesto del Trust, ma raramente compreso nella sua esatta portata giuridica e fiscale.
Quando si parla di interposizione fittizia, ci si riferisce a un concetto normativo specifico che ha importanti implicazioni fiscali. Ciò significa che l’interposizione fittizia si verifica quando un soggetto agisce per conto di un altro, mascherando la vera natura delle transazioni.
Nel campo tributario, l’interposizione fittizia è utilizzata dall’amministrazione finanziaria come presunzione per imputare i redditi non al soggetto formale, ma a quello sostanziale, ritenuto effettivo detentore del potere di disposizione. Questo schema interpretativo è stato più volte applicato, talvolta impropriamente, anche ai Trust, soprattutto quando il Disponente mantiene un ruolo attivo nella gestione dei beni o conserva poteri di revoca.
Il rischio è quello di confondere due piani distinti. Da un lato, il piano civilistico, in cui il Trust ha un effetto reale, produce segregazione patrimoniale e attribuisce poteri gestionali al Trustee; dall’altro, il piano fiscale, in cui il concetto di “disponibilità economica” può portare a ignorare la struttura giuridica per privilegiare l’apparenza.
Questa confusione ha trovato terreno fertile in un’interpretazione storicamente distorta, risalente al periodo dello scudo fiscale del 2009, quando si cercò di attrarre a tassazione patrimoni detenuti all’estero tramite Trust. In quel contesto, si è fatto spesso coincidere il concetto di “disponibilità” con quello di “possesso”, generando una lettura eccessivamente estensiva del concetto di interposizione.
Eppure, la differenza è sostanziale. Non è interposto il Trust in sé, ma eventualmente l’uso distorto che se ne fa. È l’abuso dello strumento, e non lo strumento in quanto tale, che può integrare una fattispecie di interposizione fittizia.
Una delle principali fonti di equivoco nella materia fiscale legata ai Trust è la tendenza a considerare il Trustee come un semplice intermediario, una figura passiva o addirittura fittizia.
Ma si tratta di una semplificazione pericolosa e fuorviante, che ignora la natura giuridica profonda del Trust.
Nel Trust autentico, il Trustee non è un intestatario fittizio dei beni, bensì il proprietario effettivo in senso giuridico, anche se vincolato all’obbligo fiduciario nei confronti dei beneficiari. Questa titolarità formale e sostanziale è ciò che distingue il Trustee da un prestanome. Il Trustee non agisce su ordine del Disponente, ma secondo le regole dell’atto istitutivo: ha poteri, responsabilità, doveri e margini di discrezionalità che ne fanno un soggetto attivo e autonomo.
Quando l’Agenzia delle Entrate riscontra che il Disponente ha conservato poteri troppo ampi, come la possibilità di revocare il Trust, sostituire il Trustee o dirigere di fatto le operazioni, tende a considerare il Trust come un’interposizione fittizia. In questi casi, la figura del Trustee viene ridotta a quella di un esecutore formale privo di reale autonomia.
È bene prestare attenzione alla seguente distinzione:
Confondere questi due piani indebolisce la credibilità del Trust come strumento giuridico e compromette la certezza del diritto, creando un clima di sospetto e incertezza generalizzato.
Un Trust ben strutturato può essere un valido strumento di pianificazione patrimoniale. Se, però, il Trustee non ha autonomia nella gestione dei beni, si potrebbe non essere in presenza di un vero Trust, ma di un mandato.
È importante riconoscere che l’evasione fiscale può avvenire mediante diverse forme giuridiche: ditte individuali, società in accomandita semplice, società in nome collettivo e società a responsabilità limitata.
L’evasione fiscale è un comportamento illegale da parte del soggetto come persona fisica, non dello strumento utilizzato. Quindi, è un grande errore attribuire la colpa allo strumento. Il problema risiede nella persona e nella sua cultura legale.
Ci sono stati casi documentati di interposizione fittizia, che hanno portato a contestazioni da parte dell’Agenzia delle Entrate. Le conseguenze per i contribuenti coinvolti e per i Trustee sono state tutt’altro che trascurabili.
Quando l’amministrazione fiscale disconosce la validità del Trust sotto il profilo fiscale, può procedere con:
In questi casi, anche il Trustee può trovarsi esposto a responsabilità importanti, soprattutto se non è stato in grado di dimostrare l’autonomia gestionale e la reale separazione patrimoniale. La sua posizione, pur formalmente forte, può essere messa in discussione se l’atto istitutivo del Trust è redatto in modo approssimativo o se le operazioni di gestione risultano incoerenti con il contenuto del Trust.
Un caso emblematico riguarda un Trust istituito formalmente con atto notarile, ma nel quale il Disponente aveva mantenuto il controllo effettivo sui beni, impartendo istruzioni informali e revocando più volte il Trustee. In tale situazione, la Cassazione ha confermato che l’Agenzia delle Entrate poteva legittimamente considerare il Trust inesistente dal punto di vista fiscale, ritenendolo una simulazione.
Questo tipo di esito dimostra quanto sia essenziale redigere l’atto istitutivo con competenza tecnica, prevedere un assetto equilibrato dei poteri tra Disponente, Trustee e Guardiano, e documentare con precisione le attività di gestione. Solo così si può proteggere il Trust da interpretazioni distorsive e garantire la sua validità anche agli occhi dell’amministrazione fiscale.
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Uno dei principali malintesi che affliggono il Trust riguarda la questione della revocabilità. Spesso si crede che un Trust revocabile sia uno strumento inefficace ai fini della protezione patrimoniale o, peggio, un indizio di interposizione fittizia.
Ma questa è una semplificazione che non tiene conto della complessità dell’istituto e della varietà delle finalità per cui può essere istituito.
Revocabilità significa che il Disponente ha previsto la possibilità di sciogliere il Trust o modificarne le condizioni. Questa facoltà, se disciplinata nell’atto istitutivo, non è di per sé contraria alla natura del Trust. È una clausola contrattuale che può essere esercitata per esigenze sopravvenute, per mutamenti nella condizione dei beneficiari o per ristrutturazioni patrimoniali legittime.
L’equivoco nasce quando la revocabilità viene interpretata come sintomo di un controllo occulto del Disponente sui beni. Ma la revocabilità non equivale a disponibilità immediata. È una facoltà giuridica e non un potere gestionale, e va distinta dal mantenimento di un controllo quotidiano sulle scelte del Trustee, che potrebbe effettivamente configurare un caso di interposizione.
Nella prassi internazionale, anche in giurisdizioni anglosassoni, molti Trust prevedono meccanismi di revoca o modifica, senza che ciò ne comprometta la validità giuridica. Ciò che conta è che tali poteri siano regolati e circoscritti e che il Trustee, fino all’eventuale revoca, agisca con piena autonomia e secondo l’obbligo fiduciario assunto.
Sottolineare questo aspetto è fondamentale per superare la visione riduttiva e difensiva che spesso si ha del Trust in Italia. La revocabilità, se ben strutturata, non è un vizio. Al contrario, può rappresentare una flessibilità utile per adattare lo strumento ai cambiamenti della vita personale, familiare o imprenditoriale del Disponente.
Uno degli snodi più delicati nella valutazione fiscale di un Trust riguarda l’equilibrio tra i poteri del Disponente e l’autonomia del Trustee. È proprio questo bilanciamento a determinare la validità e l’efficacia dello strumento, nonché a influenzare l’eventuale qualificazione come entità autonoma ai fini tributari.
Il Disponente può, legittimamente, prevedere poteri di intervento sull’atto istitutivo, come la revoca del Trust, la sostituzione del Trustee o la modifica dei Beneficiari. Tuttavia, se questi poteri sono esercitabili in modo illimitato e senza vincoli, si rischia di svuotare il ruolo del Trustee e di vanificare la segregazione patrimoniale che costituisce l’essenza del Trust.
Il Trustee, infatti, non è un esecutore della volontà del Disponente, ma un soggetto che assume una vera e propria obbligazione fiduciaria. Egli è responsabile della gestione dei beni nel rispetto delle istruzioni contenute nell’atto istitutivo, ma deve agire con autonomia e discrezionalità, nei limiti consentiti, nell’interesse dei Beneficiari.
Quando l’atto istitutivo è scritto in modo da subordinare ogni decisione del Trustee al volere del Disponente, oppure se in pratica il Trustee si limita ad eseguire gli ordini informali del disponente, non si è più in presenza di un Trust vero e proprio, bensì di un mandato mascherato, con tutte le implicazioni fiscali e giuridiche che ne derivano.
Si rende fondamentale, pertanto, definire con chiarezza i ruoli e limitare, anche sul piano operativo, l’interferenza del disponente nelle attività del Trustee. In molti casi, la presenza di un Guardiano o di un comitato di controllo può rappresentare una soluzione equilibrata, consentendo un livello di vigilanza senza compromettere l’indipendenza gestionale del Trustee.
In ultima analisi, il Trust funziona e viene riconosciuto anche dal Fisco solo quando è effettivo nella sua struttura e nelle sue dinamiche. Se i poteri del Disponente soffocano l’autonomia del Trustee, si esce dall’ambito del Trust per entrare in quello della simulazione o dell’interposizione fittizia.
Nel corso degli anni, l’Agenzia delle Entrate ha adottato un approccio spesso restrittivo e penalizzante nei confronti del Trust, generando una serie di interpretazioni discutibili che hanno creato insicurezza giuridica e contenzioso.
Uno degli errori più frequenti è la confusione sistematica tra Trust e mandato fiduciario, che porta l’amministrazione a sospettare interposizione fittizia ogni volta che il Disponente mantiene un certo margine di controllo. Come già sottolineato, il fatto che il Disponente abbia riservato alcuni poteri, come la possibilità di revocare il Trustee o di modificare i beneficiari, non equivale automaticamente a interposizione. L’Agenzia tende invece a leggere queste clausole come segnali di una titolarità economica occulta, senza considerare la struttura complessiva dell’atto istitutivo e il comportamento effettivo del Trustee.
Inoltre, l’Agenzia delle Entrate ha più volte equiparato il Trust a una “scatola vuota” quando non vi è immediata attribuzione di reddito ai Beneficiari o quando il Trustee non svolge un’attività gestionale articolata. Questo ha portato a contestazioni anche in presenza di Trust validi, semplicemente perché considerati “sospetti” in quanto poco attivi o discrezionali.
Tali interpretazioni, oltre a essere in contrasto con l’ordinamento civilistico, spesso ignorano i principi generali del diritto tributario, come la certezza del diritto, il divieto di analogia in materia sanzionatoria e la necessità di fondare la tassazione su elementi oggettivi e documentabili, non su presunzioni arbitrarie.
Di conseguenza, molti contribuenti e professionisti si sono ritrovati in una posizione di vulnerabilità fiscale pur avendo strutturato correttamente il Trust, nel rispetto delle normative nazionali e internazionali. È dunque indispensabile che l’amministrazione finanziaria abbandoni una visione sospettosa per adottare un’analisi più tecnica e aderente al diritto.
Laddove si voglia contrastare un uso abusivo del Trust, è corretto e doveroso intervenire. Ma ciò non può avvenire a discapito della stragrande maggioranza degli utilizzi leciti, che rappresentano una risorsa importante per la protezione e la trasmissione ordinata del patrimonio.
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Per comprendere appieno le conseguenze dell’equivoco tra revocabilità del Trust e interposizione fittizia, è utile considerare alcuni esempi pratici. Questi casi aiutano a chiarire come l’interpretazione dell’Agenzia delle Entrate possa tradursi in effetti fiscali imprevisti e onerosi per i contribuenti.
Pensiamo, ad esempio, a un soggetto che costituisce un Trust revocabile per tutelare i beni destinati ai figli minori. Il Disponente, preoccupato per il futuro patrimoniale della famiglia, decide di mantenere la possibilità di revocare il Trust in caso di necessità straordinarie. Il Trustee, nel frattempo, gestisce attivamente i beni secondo le clausole dell’atto istitutivo, senza interferenze.
Dal punto di vista civilistico, il Trust è pienamente valido: i beni sono segregati, il Trustee è responsabile, i Beneficiari sono determinati. Durante un accertamento fiscale, l’Agenzia potrebbe contestare l’interposizione fittizia, sostenendo che la facoltà di revoca dimostra che i beni sono ancora nella disponibilità economica del Disponente. Di conseguenza, i redditi prodotti dai beni verrebbero imputati direttamente a quest’ultimo, con tassazione personale e possibili sanzioni per infedele dichiarazione.
Un altro caso frequente riguarda i Trust discrezionali in cui i Beneficiari non hanno un diritto immediato ai redditi, ma solo un’aspettativa. L’Agenzia può sostenere che l’assenza di titolari certi renda il Trust un soggetto passivo inesistente o, peggio, un semplice strumento interposto. Anche in questo caso, le implicazioni fiscali sono gravi. Si rischia l’integrale attribuzione dei redditi al Disponente, la mancata deducibilità di eventuali oneri e una tassazione complessiva più pesante.
La fiscalità del Trust non può essere affrontata con automatismi, né tantomeno con pregiudizi. Serve un’analisi puntuale dell’atto istitutivo, delle reali dinamiche gestionali e del comportamento delle parti. Solo così si può evitare che uno strumento legittimo e utile venga sanzionato per una lettura superficiale o ideologica.
In Italia, il Trust continua a vivere una condizione paradossale: è uno strumento giuridicamente riconosciuto e utilizzato in molteplici contesti, eppure spesso frainteso, sospettato o trattato con diffidenza.
Non si tratta solo di normativa, ma è una questione culturale e professionale.
Solo attraverso una maggiore comprensione della natura del Trust, un uso corretto e trasparente dello strumento e un dialogo costruttivo tra professionisti e autorità fiscali si potrà finalmente dare al Trust la dignità operativa e fiscale che merita.
Per questo motivo, la formazione continua e il confronto tra esperti, come quello che avviene quotidianamente all’interno dell’Associazione Il Trust in Italia, sono fondamentali per diffondere una cultura della legalità e della pianificazione patrimoniale consapevole.
Il Trust non è il problema, è una soluzione e come tale ha bisogno di essere compresa, rispettata e tutelata.